Civitella in Valdichiana, Gebbia e Cornia
MONUMENTO A CORNIA
Civitella, che si estende su una sella tra la Valdichiana e la Val d’Ambra, costituisce una vista imponente dalla valle sottostante. Il castello, che ne domina il versante meridionale, fu un bersaglio frequente dei bombardamenti alleati durante le prime due settimane del luglio 1944. Sul lato settentrionale c’è la piazza col pozzo e una chiesa restaurata, accanto alla quale sorge un monumento alle vittime delle rappresaglie nazi-fasciste che si verificarono tra il 29 giugno e il 10 luglio del 1944. Collega il castello alla piazza la strada principale col bel portico dove un tempo aveva sede il Dopolavoro; cinque partigiani fecero irruzione in quel circolo il 18 giugno, morirono due soldati tedeschi e ne rimase ferito un terzo.
Sulle colline a nord-ovest della Valdichiana la Banda Renzino, un gruppo autonomo di partigiani che, secondo alcune fonti, apparteneva alla 24ª Brigata Garibaldi ‘Bande Esterne’, ma che da altre fonti viene ritenuta indipendente da qualsiasi altra formazione, era guidata da un certo Renzino. Era attiva su una vasta area che spaziava dai piccoli paesi di Civitella in Valdichiana e Monte San Savino ad est, fino a Rapolano e San Giovanni d’Asso nella Provincia di Siena ad ovest. Manteneva contatti sporadici con altri gruppi di partigiani attivi nell’area del Pratomagno, e aveva un accordo con uno di loro, l’8° Raggruppamento ‘Monte Amiata’, nel senso che si sarebbero soccorsi reciprocamente nel caso che l’uno o l’altro venisse attaccato. Secondo una fonte (l’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza), Renzino era il soprannome di Edoardo Succhielli, un giovane ufficiale dei paracadutisti originario del posto, mentre un’antologia di memorie della Resistenza, a cura del Succhielli stesso (Succhielli 1979), dà come vero nome di ‘Renzino’ Francesco Mazzeschi.
Sulle colline a nord-ovest della Valdichiana la Banda Renzino, un gruppo autonomo di partigiani che, secondo alcune fonti, apparteneva alla 24ª Brigata Garibaldi ‘Bande Esterne’, ma che da altre fonti viene ritenuta indipendente da qualsiasi altra formazione, era guidata da un certo Renzino. Era attiva su una vasta area che spaziava dai piccoli paesi di Civitella in Valdichiana e Monte San Savino ad est, fino a Rapolano e San Giovanni d’Asso nella Provincia di Siena ad ovest. Manteneva contatti sporadici con altri gruppi di partigiani attivi nell’area del Pratomagno, e aveva un accordo con uno di loro, l’8° Raggruppamento ‘Monte Amiata’, nel senso che si sarebbero soccorsi reciprocamente nel caso che l’uno o l’altro venisse attaccato. Secondo una fonte (l’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza), Renzino era il soprannome di Edoardo Succhielli, un giovane ufficiale dei paracadutisti originario del posto, mentre un’antologia di memorie della Resistenza, a cura del Succhielli stesso (Succhielli 1979), dà come vero nome di ‘Renzino’ Francesco Mazzeschi.
Oltre a Renzino, uno dei personaggi centrali negli eventi che portarono ai massacri di Civitella in Valdichiana fu un giovane di nome Vasco Caroti, che si unì alla Banda Renzino nella primavera del 1944 per sfuggire all’arruolamento forzato nell’esercito repubblicano di Mussolini. Caroti era uno dei cinque partigiani implicati nell’attacco al Dopolavoro. Avendo deciso di unirsi alla Banda Renzino, aveva poi chiesto la benedizione del prete di Civitella, Don Alcide Lazzeri, credendolo persona aperta alle idee democratiche e sostenitore della causa dei partigiani. Fatto questo, aveva raggiunto la base partigiana a Valibona, nascosta tra le colline boscose ad occidente tra i due paesini di Cornia e Gebbia. Poco tempo dopo aveva preso parte ad un attacco ad un ponte sulla ferrovia tra Arezzo e Sinalunga. Ricordava che, a dispetto della sonora esplosione, i treni continuarono a percorrere quel tratto della linea come prima, a parte che dopo il fatto i nazi-fascisti raddoppiarono la vigilanza e le sentinelle facevano la ronda in coppia. All’epoca la Banda Renzino contava circa tra i venti ed i trenta elementi, tra cui c’erano circa dieci prigionieri di guerra alleati tenuti prima dell’8 settembre 1943 nel campo di concentramento di Laterina, vicino Arezzo. La terza settimana di giugno il numero dei componenti risultava aumentato a circa ottanta-novanta persone e le sue unità operative entravano in azione mediamente due volte ogni ventiquattro ore. Oltre a distruggere ponti, linee telefoniche e telegrafiche, ed a disarmare i carabinieri del posto per procurarsi le loro armi di cui avevano un bisogno disperato, i partigiani intervenivano a fermare i fascisti che fucilavano chi non aveva risposto alla chiamata alle armi dell’esercito repubblicano.
Il 18 giugno una piccola flotta di aerei alleati sorvolò il paese di Cornia vicino alla base dei partigiani. I partigiani segnalarono la loro presenza e quelli risposero lanciando dei volantini che dicevano Partigiani, siamo in Toscana. Stiamo arrivando da voi. Dateci man forte. Non date tregua al nemico. Assalitelo dovunque si trovi. (Succhielli p. 151) Lo stesso giorno un gruppo di nove tedeschi raggiunse una fattoria proprio sotto Civitella in una località chiamata La Madonna, e presero alloggio con la famiglia che vi risiedeva. Sembrava che avessero perso - forse deliberatamente - i contatti con la loro unità, il Fallschirmjäger-Regiment 11 della 4 Fallschirmjäger-Division. In seguito quattro di loro salirono a Civitella e prima di entrare nel Dopolavoro per bere qualcosa passeggiarono per il paese lanciando, non si sa bene perché, qualche razzo di segnalazione. Alcuni abitanti, convinti di essere stati abbandonati dai partigiani che ancora non erano entrati in azione, fecero sapere la cosa al Caroti, che era sceso in paese da Valibona, dicendo “Come siete pronti, eh? Quando c'è da sbafare a qualche fattoria... E poi? Quando ci sono i tedeschi tu non li vedi.” (Succhielli p. 151)
Quando il Caroti tornò a Valibona e riferì la conversazione al Renzino, la sua risposta fu che non si doveva dare peso a quelle frecciate, poiché i tedeschi erano dappertutto ed i partigiani non potevano essere in due posti allo stesso tempo. Tuttavia, dopo una ulteriore discussione, Renzino si convinse a capeggiare un gruppo per un’incursione a Civitella, e al crepuscolo con quattro uomini tra cui Caroti, andò al Dopolavoro, dove trovò i quattro tedeschi, uno dei quali un ufficiale, tranquillamente seduti a bere. “Hände hoch”, gridò Renzino, al che tre di loro alzarono le mani, ma il quarto cercò di reagire. L’unica arma di cui disponeva era il coltello, dato che i partigiani gli avevano appena sottratto la mitraglietta che aveva appoggiato sul tavolo. Fu colpito mentre cercava di impugnare il coltello; allo stesso tempo Renzino uccise l’ufficiale. Un terzo tedesco fu ferito, mentre il quarto rimase illeso. Due civili che si trovavano nel bar furono feriti nella sparatoria e gli altri fuggirono urlando “Basta! Che vi credete di fare?” mentre il tedesco, illeso ma terrorizzato, cominciò ad arrampicarsi sulla grata della finestra nel tentativo di fuggire. Caroti lo bloccò ma Renzino gli disse di lasciarlo andare. “Fallo scappare, forse questo salverà undici vite.” Un testimone, all’epoca un ragazzo, ricorda di aver visto i partigiani darsela a gambe con le armi dei tedeschi morti. Il tedesco illeso aiutò il suo compagno ferito a ritornare a La Madonna, da dove si dice che fosse portato in ospedale a Montevarchi, morendo però il giorno successivo.
Ne seguì una notte di terrore nel paese. La maggior parte degli uomini si nascosero poiché immaginavano che ci potessero essere rappresaglie come quelle che si diceva avessero avuto luogo a Vallucciole. Il giorno successivo il paese fu evacuato, le uniche persone che rimasero furono alcune donne e uno o due uomini tra cui il prete, Don Alcide. A sera ebbe luogo un altro incidente che peggiorò la situazione. Mentre gli altri tedeschi che erano rimasti a La Madonna se ne stavano andando, videro due giovani che li osservavano col binocolo dalla torre del castello. Fecero marcia indietro, aggirarono la torre, e sparando all’impazzata, catturarono i due giovani e li misero al muro per fucilarli credendo che fossero partigiani. Intervenne una donna svedese, sposata con un italiano di nome Cau, ed i due furono rilasciati.
La signora Cau, sfollata da Firenze insieme al marito, la madre ed i tre bambini nel paesino di Gebbia che si trova ad ovest di Civitella, parlava sei lingue e spesso faceva da interprete per le truppe tedesche che avevano il comando a Villa Carletti a Monte San Savino. Secondo molti in paese la donna, la cui casa era un punto di incontro per gli ufficiali, poteva essere una spia. Era lei che aveva riferito dei soldati morti al comandante, mentre sembrava che i loro compagni avessero taciuto la cosa, dando origine alla convinzione che fossero disertori in fuga. Un Maresciallo tedesco, giunto a Civitella in una Balilla, si incontrò col prete e provvide alle bare per il funerale dei soldati defunti. Alle tre del pomeriggio per il funerale arrivò un camion pieno di soldati tedeschi armati fino ai denti e arrivarono anche un paio di macchine. Durante il funerale furono sparati vari colpi di fucile, dopo di che i tedeschi cominciarono immediatamente ad indagare su chi fossero stati gli autori del crimine. Nessuno parlò. A Pozzone acciuffarono quindici persone - donne, bambini e uno o due uomini - forse con l’intenzione di ucciderli, ma dietro ripetuta insistenza sulla loro innocenza da parte della signora Cau e del signor Lammioni, un funzionario dell’amministrazione locale, essi furono rilasciati.
I partigiani erano perplessi sul rapporto tra la signora Cau ed i tedeschi, ma intendevano utilizzarla a proprio vantaggio. Caroti la mandò a cercare e la portarono a cavallo insieme al marito al comando partigiano, che si era spostato in una fattoria chiamata Bollore situata su un terreno di proprietà di Don Natale Romanelli, il prete di Cornia. Nell’interrogatorio la signora Cau insistette che i loro rapporti con i tedeschi erano semplicemente di natura amichevole e culturale. Con il suo aiuto, Caroti preparò un messaggio scritto in tedesco, il cui senso era che l’incidente a Civitella era stato fortuito e che la morte dei due soldati tedeschi era dovuta al fatto che avevano opposto resistenza mentre venivano disarmati. Nel messaggio si elencavano i nomi dei sedici ostaggi catturati negli ultimi tempi dai partigiani, e si dava ad intendere che sarebbero stati liberati coloro che avessero dichiarato di volersi riunire alle proprie unità, se i tedeschi si fossero impegnati a non attaccare la popolazione civile. L’incarico di consegnare il messaggio al comando tedesco il giorno successivo fu affidato alla signora Cau, cosa che lei si dichiarò disposta a fare. Tuttavia il messaggio non fu mai consegnato. Caroti sostiene che la donna si fosse recata da Don Natale Romanelli, chiedendo a lui di consegnarlo ai tedeschi. Ma il prete non fece ciò che gli era stato chiesto, con la motivazione - successivamente dichiarata in un processo - che non voleva far precipitare gli eventi.
Poco dopo mezzogiorno del 20 giugno, Caroti e altri quindici partigiani salirono sulle colline a Bollore per un appuntamento col Renzino. Al di sotto del luogo del loro incontro, vicino alla strada che congiunge San Pancrazio a Monte San Savino, si trovava la villa-castello di Montaltuzzo, affittata da un certo Dottor Magrini. Per concessione di costui, la villa veniva usata dai partigiani come deposito armamenti, prigione e osservatorio da cui spiare i veicoli del nemico che viaggiavano sulla strada sottostante. Le armi nascoste nella villa erano state per lo più rubate durante le incursioni ai convogli di passaggio, ed i prigionieri erano stati presi tra gli equipaggi dei veicoli. Nell’area che circondava la villa erano state recise tutte le linee telefoniche, costringendo i tedeschi ad usare radio-trasmittenti o mandare messaggi tramite giovani staffette, che così rischiavano di essere intercettati. I sedici uomini, i cui nomi erano elencati nel messaggio che la signora Cau avrebbe dovuto consegnare al comando tedesco, erano stati catturati nei sei giorni successivi alla sparatoria al Dopolavoro e venivano tenuti rinchiusi nella cantina della villa.
ll giorno stesso in cui la signora Cau era stata pregata di tradurre e consegnare il messaggio, le avevano anche chiesto di interrogare altri due soldati tedeschi che erano appena stati catturati e condotti al comando partigiano. Caroti nelle sue memorie scrisse che erano due delinquenti che meritavano proprio di essere fucilati, ma che lui contava di consegnarli agli Alleati, nel caso che i tedeschi avessero risposto negativamente al messaggio dei partigiani. A quanto pare li aveva visti al suo arrivo a Bollore e aveva notato che ciascuno di loro aveva uno zaino pieno di indumenti femminili che erano stati palesemente rubati.
Caroti ed i suoi compagni sapevano che in pochi giorni avrebbero potuto trovarsi faccia a faccia con le truppe tedesche in ritirata dalla Linea Albert. Alcune delle forze in ritirata avrebbero valicato il passo a San Pancrazio dirigendosi a nord verso Firenze e la Linea Gotica, perciò i partigiani radunati a Bollore intendevano impedire la loro ritirata e intervenire ogni qual volta i tedeschi avessero tentato di rubare bestiame o cibo. Si misero a preparare un piano di attacco. Come parte di questa strategia, una compagnia di venti partigiani già si trovava in agguato dietro la fattoria detta Il Molino, che si trovava vicino alla strada che va da San Pancrazio a Monte San Savino.
Verso le quattro del pomeriggio una Fiat 1100 fu vista fermarsi in una piccola area di sosta lungo la strada e due soldati tedeschi furono visti scendere. I partigiani si mossero attraverso il bosco e un campo di grano, arrivarono a circa quindici o venti metri dai due uomini, e li disarmarono dopo aver loro intimato di alzare le mani; la macchina fu prudentemente spostata e nascosta nelle vicinanze. I due prigionieri avevano con sé parecchie bottiglie di alcolici; il partigiano Tom notò che mentre i partigiani ed i prigionieri bevevano insieme piuttosto amichevolmente, i prigionieri rivelarono che di lì a poco il loro comandante sarebbe arrivato a bordo di una moto con side-car, che di fatto apparve sulla scena poco dopo con tre uomini a bordo. Si fermò davanti alla fattoria, e proprio mentre i partigiani stavano per catturare questi ultimi tre uomini oltre ai due che avevano già preso, una donna si affacciò dalla fattoria e dette l’allarme.
L’ufficiale tedesco, che apparteneva alla Feldgendarmerie-Trupp B 1000, aprì il fuoco e nella schermaglia che ne seguì rimase ferito, mentre gli altri due uomini che erano con lui, più fortunati, riuscirono a scappare attraverso i boschi verso Verniana. Secondo il partigiano Tom, i suoi raccolsero l’uomo ferito e lo portarono al di là del corso d’acqua che scorreva lungo il campo di granturco, e poi mandarono a chiamare un medico solidale con la causa dei partigiani, un certo Dottor Uva, pregandolo di venire il più presto possibile. Tom scrisse che per loro era fondamentale cercare di salvare la vita del tedesco poiché se fosse morto dieci italiani avrebbero rischiato di seguire la sua stessa sorte. Durante l’attesa del dottore, Tom provvide a far scortare i due prigionieri al posto di comando partigiano.
Non appena arrivò il medico che indossava la Croce Rossa, il ferito, un maresciallo di circa trenta anni, fu portato all’ospedale militare tedesco allestito a Monte San Savino. Tom, fingendosi un infermiere, accompagnò i due all’ospedale, e riferì la conversazione che ebbe luogo tra di loro ed i tedeschi di stanza in quel posto. Risulta che chiesero al dottore dove fosse stato trovato il ferito, ed egli rispose che era stato trovato presso il paesino di Verniana. Gli chiesero anche quanti partigiani ci fossero nella zona, ed egli rispose che le voci parlavano di migliaia, senza riflettere sul fatto che questa affermazione avrebbe potuto portare i tedeschi a setacciare la zona alla ricerca dei cosìddetti banditi. A Tom e al dottore fu data una macchina per riportarli indietro, ma sulla strada del ritorno si imbatterono in un cartello che diceva ‘Achtung Banditen’, e allora l’autista li fece scendere per cui dovettero procedere a piedi per il resto del tragitto.
A seguito di questo incidente, tutte le compagnie del Renzino furono chiamate a presentarsi a Bollore a mezzogiorno del 23 giugno. Era chiaro a questo punto che i tedeschi stavano organizzando una retata dei partigiani con l’intenzione di sterminarli. Più in basso a Montaltuzzo sventolava la bandiera rossa, intesa sia come una provocazione per i tedeschi, sia come punto di riferimento per i partigiani; il Dottor Magrini aveva lasciato la villa il giorno precedente per unirsi alla Banda Renzino sulle colline. All’inizio della battaglia di quattro ore, ricordata da Renzino come la più importante e gloriosa nella storia della loro formazione, circa ottanta uomini furono radunati al di sopra di Montaltuzzo vicino al sentiero che andava su a Bollore. Pur essendo stati accerchiati dalle truppe della Feldgendarmerie che all’arrivo alla villa buttarono giù la porta della cantina liberando gli uomini tenuti prigionieri all’interno, i partigiani sostengono che riuscirono ad infliggere loro un consistente numero di perdite prima di ritirarsi su a Bollore. Un partigiano testimone oculare, Otello, ricorda di aver visto tre camion carichi di SS tutti in posizione orizzontale (Succhielli p. 186) ed a suo avviso c’erano per lo meno trentasei vittime tedesche. Il partigiano Tom ricordava di essersi buttato a terra in ginocchio durante la battaglia e di aver scaricato una mitragliata a tutto raggio, col risultato che tutti i tedeschi che stavano avanzando verso di lui restarono fulminati o caddero in corsa, e asserisce che lo stesso destino toccò a quelli che avanzarono per prendere il loro posto. Altre fonti registrano solo una perdita tra i tedeschi, contro due o tre tra i partigiani. Alla fine della battaglia i partigiani si ritirarono su verso la loro base di comando e il partigiano Angiolino Nappini annotò che fecero brevi tappe in varie fattorie e piccole frazioni, in particolare Poggilunghi, Solaia, Il Burrone, Capocontro, Poggioli e Cornia; lo scopo di queste brevi tappe era di accertare che il morale della nostra popolazione era ancora alto e la sua ammirazione nei nostri confronti illimitata.
(Succhielli p. 189)
Tuttavia circa la metà dei partigiani coinvolti nella battaglia non fece ritorno alla banda successivamente, e Renzino cogli altri quaranta cercò di unirsi all’ 8° Raggruppamento Patrioti ‘Monte Amiata’ guidato da Raul Ballocci, che essendo un gruppo non-comunista era riuscito a venire in possesso di armi grazie ad un lancio da aerei alleati e si stava spostando dalla sua base sul Pratomagno a Mongirato vicino Pergine sulla riva occidentale dell’Arno non lontano da Civitella.
Nel frattempo il 27 giugno un gruppo di soldati tedeschi appartenenti alla temuta Feldgendarmerie arrivò a Civitella, a quanto pare accompagnato da fascisti locali. Due o tre entrarono nel paese e andarono casa per casa a farsi dare le radio, e gli altri andarono in giro all’esterno per fare fotografie. Il 29 tutti gli abitanti erano tornati al paese, pensando che fosse passato abbastanza tempo dalle uccisioni al Dopolavoro perché si verificassero delle rappresaglie; tuttavia alle tre e mezzo circa del mattino un gruppo di una sessantina di tedeschi che, secondo lo storico locale il sacerdote Don Enrico Biagini appartenevano alle SS, ma che di fatto invece erano della 1 Fallschirmjäger-Division, lasciarono il loro campo base che si trovava al convento chiamato Le Vertighe vicino Monte San Savino e, accompagnati dalla Feldgendarmerie-Trupp B 1000 (motociclisti) della Feldgendarmerie, arrivarono sotto Civitella tra le cinque e mezzo e le sei del mattino, dopo aver fatto prigionieri durante il tragitto tutti gli uomini che avevano incontrato, mentre avevano lasciato andare le donne ed i bambini.
In chiesa il prete Don Alcide Lazzeri stava officiando alla messa in onore dei SS. Pietro e Paolo, quando qualcuno entrò ad avvertirlo che i tedeschi erano arrivati al paese. Erano armati pesantemente e indossavano l’apparato mimetico, alcuni addirittura coperti di rami di quercia. Avevano rastrellato tutte le case uccidendo tutti gli uomini che avevano trovato. Altri erano rimasti accanto alle due porte del paese e sparavano a tutti quelli che cercavano di entrare o scappare. Poi entrarono in chiesa, e fecero uscire tutte le donne ed i bambini prima di lanciare una granata e sparare diversi colpi di mitragliatrice.
“Kaput, raus”, gridarono. Alcuni uomini riuscirono a scappare dal frutteto del prete perché i due tedeschi che erano di guardia chiusero un occhio su quello che succedeva, ma sfortunatamente furono quasi tutti presi dopo da altri tedeschi che venivano su in paese e furono portati a Palazzina, sotto Civitella, soltanto per essere fucilati in quel luogo. Don Alcide fece appello ai tedeschi, offrendo se stesso in cambio degli altri. Il comandante se lo aspettava ed ebbe un momento di esitazione, ma poi dette l’ordine per l’inizio del massacro. Gli uomini furono portati fuori della chiesa sulla piazza dove i tedeschi fucilarono prima di tutti il prete, il seminarista e altri tre, poi il resto delle vittime, cinque alla volta, puntando loro la pistola alla tempia. Fra i tre che riuscirono a scappare dalla piazza c’era un giovane seminarista, Don Daniele Tiezzi, che dette una gomitata nello stomaco al tedesco che gli puntava la pistola alla tempia. Corse via, saltò da un muro alto nei cespugli fitti che c’erano sotto, rimase gravemente ferito e restò lì finché fu ritrovato più tardi quel pomeriggio da suo cugino.
I tedeschi presero i portafogli, gli orologi e gli abiti degli uomini che fucilarono in piazza. Diciassette cadaveri furono portati sulle soglie delle case e bruciati. Nel frattempo gli altri soldati si abbandonarono ad un’orgia di distruzione per tutto il paese, dando fuoco alle case e uccidendo chiunque incontrassero. Un certo signor Bidini che stava a casa sua quando i tedeschi arrivarono, prese un ceppo di legna, gli dette fuoco e lo posizionò davanti alla finestra. Quando essi videro le fiamme pensarono che la casa stesse bruciando e così non entrarono. Voci prive di fondamento sostengono addirittura che i tedeschi abbiano ucciso uno dei loro stessi uomini che si era rifiutato di uccidere le persone innocenti. Alle undici era tutto finito. Quando i tedeschi se ne andarono, i paesani che erano rimasti nascosti nel paese fuggirono.
Il partigiano Angiolino Nappini descrive le sue emozioni il giorno del massacro e ricorda quello che accadde tra i partigiani. Lui ed i suoi compagni nella Banda Renzino si trovavano sulle montagne sopra Civitella in un posto chiamato Campodalti, da cui vedevano alzarsi le fiamme provenienti dalle case sotto. Egli scrisse che
Da dentro le mura di Civitella, dalle case dov'erano i miei genitori e tutte le altre persone che mi erano più care al mondo, si levavano le fiamme. Mi figurai, in una visione pari ad una allucinazione, i volti noti dei miei cari e della mia gente senza aiuto in mezzo al fuoco. (Succhielli p. 198)
Nappini chiese a Renzino di andare in aiuto alla gente del paese ma lui dapprima si rifiutò, dicendo che nessuno sarebbe potuto arrivare fino là vivo. Quando Nappini replicò che se gli altri erano tutti codardi, lui sarebbe andato da solo, Renzino cambiò idea e un gruppo di partigiani scese giù verso Civitella, dove sentivano gli spari e le grida disperate della gente. A quel punto Renzino si girò e ordinò agli uomini di fermarsi, dicendo, 'Lo sapete, compagni, perché quei vigliacchi sono andati a sfogarsi con la popolazione di Civitella? Perché sapevano di trovarla disarmata, perché a cercare noi hanno paura.' (Succhielli p. 199) Avanzarono ancora ma incontrarono un gruppo di giovani che erano riusciti a scappare, i quali dissero loro di tornarsene da dove erano venuti, altrimenti avrebbero solo fatto peggiorare le cose.
Concluso il massacro di Civitella, i tedeschi fecero una retata e fucilarono altre diciassette persone a Palazzina, compresi due che erano riusciti a sfuggire al massacro nella piazza ma che erano stati catturati dopo. Degli uomini fucilati a Palazzina due rimasero vivi. Uno fu ferito gravemente e sorprendentemente fu assistito da alcuni tedeschi, probabilmente autisti dei convogli, che li portarono in una fattoria e gli pulirono le ferite col vinsanto.
Allo stesso tempo in cui veniva sferrato l’attacco a Civitella, un altro gruppo di tedeschi partì da Monte San Savino lungo il sentiero di montagna che va al piccolo paese di Cornia, passando per le fattorie Il Burrone e Solaia, da dove il prete Don Natale Romanelli, dopo aver celebrato la messa delle sette, era appena partito per Verniana. Dopo un chilometro circa, incontrò un amico che gli disse di tornare indietro e avvertire la gente che doveva scappare. La madre e la sorella del prete si rifiutarono di ascoltarlo, sostenendo che i tedeschi non avrebbero toccato le donne, ma a Cornia essi non risparmiarono nessuno. Alle nove, ora in cui gli uomini si erano nascosti nei boschi di Valibona, i tedeschi arrivarono. Qualcuno di loro fu testimone delle scene terribili che si verificarono. I soldati chiusero cinque donne in una casa, spararono loro e poi appiccarono il fuoco. Una donna fu colpita da una bomba a mano e saltò insieme ad un maiale. La sorella del prete, affetta da poliomielite, fu uccisa nel giardino della sua casa, che restò un mucchio di rovine. Solo la chiesa rimase intatta, ma fu bombardata in seguito dai cannoni alleati.
A Gebbia, il paese dove aveva preso residenza temporanea la famiglia Cau, i nazi-fascisti arrivarono e portarono gli uomini attraverso i boschi di Valibona alla fattoria chiamata Podere Valle, vicino al paese attiguo di San Pancrazio, dove li uccisero. Benché non furono toccati donne e bambini né furono bruciate le case, i tedeschi uccisero tutti gli animali. Durante la battaglia a Montaltuzzo il 23 giugno, i due prigionieri che precedentemente erano stati interrogati dalla signora Cau erano stati tutti e due rilasciati. Uno di loro apparteneva alla compagnia che arrivò a Gebbia, riconobbe subito la signora Cau e la accusò di essere una spia dei partigiani. Sarebbe stata arrestata, ma andò con suo marito a Villa Carletti a parlare col comandante tedesco di sua spontanea volontà. A dispetto delle loro proteste di innocenza, furono presi prigionieri entrambi e in seguito giustiziati; i loro corpi furono ritrovati otto mesi dopo sepolti a metà in una vecchia fonderia a Focardi. In tutto, tra il 29 giugno e l’arrivo della 4 British Division a Monte San Savino il 3 di luglio, in quel luogo furono uccisi una donna e quattro uomini, e prima del 29 giugno un uomo era stato impiccato, forse perché i tedeschi avevano pensato che fosse un partigiano.
Il sacrificio di vite umane il giorno 29 a Civitella ammonta a venticinque persone uccise nella piazza di fronte alla chiesa, diciassette al Ponte della Palazzina e cinquantaquattro nelle strade e nelle case, mentre quarantacinque furono uccise lo stesso giorno a Cornia e Gebbia. Tra i morti nella zona intorno a Cornia c’erano quelle famiglie sfortunate che avevano offerto rifugio e cibo ai partigiani. A Solaia una famiglia di quattro persone fu sterminata, tutti rinchiusi nella stalla, uccisi e bruciati. Fra loro c’era Modesta Rossi, a cui è stata conferita una medaglia d’oro alla memoria per l’aiuto dato ai partigiani. A Marcaggiolo undici persone furono rinchiuse in una stanza e uccise, più una donna gravemente ferita che sopravvisse. I tedeschi appiccarono fuoco alla casa. A Il Burrone altre tre famiglie furono distrutte, una delle quali con tre bambini sotto i tredici anni. Fra i morti c’era un partigiano, un albanese di nome Hasby Ismail, al quale è stata conferita una medaglia d’oro alla memoria. I loro cadaveri furono tutti bruciati come quelli della due persone uccise al Podere Cellere.
Verso le quattro del pomeriggio, sazi dell’orgia di uccisioni e incendi, i tedeschi ritornarono al loro campo base nel convento di Le Vertighe, dove in loro assenza i frati erano riusciti a ottenere informazioni da uno soldati che era cattolico. Egli aveva detto "Camerati essere andati fare caput a italiani cattivi che avere ammazzato camerati." (Biagini p. 162)
Molti di quelli che tornavano erano a piedi con un bastone sulle spalle da cui pendeva un fagotto di indumenti femminili, biancheria, coperte e altre masserizie. C’era anche una bicicletta nuova di zecca, proprietà del prete di San Pancrazio, Don Giuseppe Torelli, che avevano ammazzato insieme ai suoi parrocchiani nel paese vicino Civitella. Si gettarono a terra stanchi morti con le uniformi luride di fumo e sangue. Si scolarono una bottiglia di vino dopo l’altra e all’inizio non volevano parlare, ma alla fine un frate riuscì a far loro ammettere che avevano massacrato alcune persone. Uno o due dei sopravvissuti tornarono a Civitella il 30 e il resto della gente il primo di luglio. La vista che si prospettò loro era orrenda. Lungo tutte le strade c’erano le file di cadaveri. C’era sangue dovunque e molti cadaveri erano sfigurati a causa delle ferite di arma da fuoco. Poco rimaneva di quei corpi che erano andati parzialmente a fuoco. Molte case erano state distrutte dalle fiamme. C’era un orribile fetore ovunque. Coloro che rientrarono, pulirono i morti in uno scantinato e li portarono in chiesa. I pochi uomini che erano sopravvissuti, insieme ad alcuni altri del paese di Viciomaggio, aiutarono le donne in questo compito raccapricciante.
Il 3 luglio altre truppe tedesche appartenenti alla 1 Fallschirmjäger-Division in ritirata della Linea Albert arrivarono nella zona e si sistemarono nella chiesa di Cornia, dove distrussero tutto. Don Natale affermò che questi soldati erano stati peggiori dei loro commilitoni che erano entrati a Civitella due giorni prima. Quest’ultimi si servirono del paese come principale posizione difensiva per più di quindici giorni, creando alloggi all’esterno delle mura, dormendo nella cantine delle case che ancora erano in piedi, mettendo i materassi per terra in chiesa, non senza averla dissacrata, usando i paramenti sacri come carta da gabinetto e sparando alle immagini sacre. L’artiglieria della 4 British Division, che in quel momento si trovò già nelle vicinanze, bombardò continuamente il paese con l’intento di cercar di annientare questi tedeschi, col risultato di far crollare altre case. La torre del castello fu danneggiata, e tutta la chiesa parrocchiale andò in rovina, con la torre campanaria rasa al suolo.
Durante questo periodo continuarono le uccisioni. A Le Caselle persero la vita altre undici persone. Il 5 luglio un certo Alessandro Lammioni di Malfiano affrontò e disarmò un tedesco che aveva ripetutamente molestato una donna. Questo gli costò la vita poiché una banda di tedeschi gli scaricò addosso un’intera mitragliatrice. A Capocontro, nella fattoria dei Migliorini, diverse persone soprattutto donne e bambini fuggite da Arezzo, erano state rinchiuse in una cantina dai tedeschi mentre loro si erano allontanati momentaneamente, forse con l’idea di ucciderle dopo. Alcune delle ragazze che appartenevano a questo gruppo erano state denudate e molestate. Fortunatamente qualcuno riuscì a liberarle tutte. Tuttavia il 10 luglio in un bosco di Selvagrossa nove uomini meno fortunati furono uccisi dopo essere stati costretti a scavarsi la loro stessa fossa, ma quattro o cinque di loro riuscirono a fuggire, compreso uno gravemente ferito. Finse di essere morto e finì per essere sepolto vivo. Questo massacro potrebbe essere collegato al fatto che a San Donato vicino Badia Agnano due tedeschi erano stati uccisi per aver molestato alcune donne. Il numero dei morti tra il 29 giugno e il 9 luglio fu in totale di centosessantuno. Sfortunatamente oltre ai tedeschi furono coinvolti in questa tragedia anche alcuni compaesani. Don Natale Romanelli scrisse che c’era stata la diretta partecipazione dei tristi repubblichini dai paesi più lontani e anche più vicini. Perché alcuni soldati erano coperti di frasche? E perché alcuni furono sentiti parlare in schietto toscano? E chi insegnò ai tedeschi anche i più piccoli viottoli attraverso i campi? (Biagini pp. 163-4)
Il 18 giugno una piccola flotta di aerei alleati sorvolò il paese di Cornia vicino alla base dei partigiani. I partigiani segnalarono la loro presenza e quelli risposero lanciando dei volantini che dicevano Partigiani, siamo in Toscana. Stiamo arrivando da voi. Dateci man forte. Non date tregua al nemico. Assalitelo dovunque si trovi. (Succhielli p. 151) Lo stesso giorno un gruppo di nove tedeschi raggiunse una fattoria proprio sotto Civitella in una località chiamata La Madonna, e presero alloggio con la famiglia che vi risiedeva. Sembrava che avessero perso - forse deliberatamente - i contatti con la loro unità, il Fallschirmjäger-Regiment 11 della 4 Fallschirmjäger-Division. In seguito quattro di loro salirono a Civitella e prima di entrare nel Dopolavoro per bere qualcosa passeggiarono per il paese lanciando, non si sa bene perché, qualche razzo di segnalazione. Alcuni abitanti, convinti di essere stati abbandonati dai partigiani che ancora non erano entrati in azione, fecero sapere la cosa al Caroti, che era sceso in paese da Valibona, dicendo “Come siete pronti, eh? Quando c'è da sbafare a qualche fattoria... E poi? Quando ci sono i tedeschi tu non li vedi.” (Succhielli p. 151)
Quando il Caroti tornò a Valibona e riferì la conversazione al Renzino, la sua risposta fu che non si doveva dare peso a quelle frecciate, poiché i tedeschi erano dappertutto ed i partigiani non potevano essere in due posti allo stesso tempo. Tuttavia, dopo una ulteriore discussione, Renzino si convinse a capeggiare un gruppo per un’incursione a Civitella, e al crepuscolo con quattro uomini tra cui Caroti, andò al Dopolavoro, dove trovò i quattro tedeschi, uno dei quali un ufficiale, tranquillamente seduti a bere. “Hände hoch”, gridò Renzino, al che tre di loro alzarono le mani, ma il quarto cercò di reagire. L’unica arma di cui disponeva era il coltello, dato che i partigiani gli avevano appena sottratto la mitraglietta che aveva appoggiato sul tavolo. Fu colpito mentre cercava di impugnare il coltello; allo stesso tempo Renzino uccise l’ufficiale. Un terzo tedesco fu ferito, mentre il quarto rimase illeso. Due civili che si trovavano nel bar furono feriti nella sparatoria e gli altri fuggirono urlando “Basta! Che vi credete di fare?” mentre il tedesco, illeso ma terrorizzato, cominciò ad arrampicarsi sulla grata della finestra nel tentativo di fuggire. Caroti lo bloccò ma Renzino gli disse di lasciarlo andare. “Fallo scappare, forse questo salverà undici vite.” Un testimone, all’epoca un ragazzo, ricorda di aver visto i partigiani darsela a gambe con le armi dei tedeschi morti. Il tedesco illeso aiutò il suo compagno ferito a ritornare a La Madonna, da dove si dice che fosse portato in ospedale a Montevarchi, morendo però il giorno successivo.
Ne seguì una notte di terrore nel paese. La maggior parte degli uomini si nascosero poiché immaginavano che ci potessero essere rappresaglie come quelle che si diceva avessero avuto luogo a Vallucciole. Il giorno successivo il paese fu evacuato, le uniche persone che rimasero furono alcune donne e uno o due uomini tra cui il prete, Don Alcide. A sera ebbe luogo un altro incidente che peggiorò la situazione. Mentre gli altri tedeschi che erano rimasti a La Madonna se ne stavano andando, videro due giovani che li osservavano col binocolo dalla torre del castello. Fecero marcia indietro, aggirarono la torre, e sparando all’impazzata, catturarono i due giovani e li misero al muro per fucilarli credendo che fossero partigiani. Intervenne una donna svedese, sposata con un italiano di nome Cau, ed i due furono rilasciati.
La signora Cau, sfollata da Firenze insieme al marito, la madre ed i tre bambini nel paesino di Gebbia che si trova ad ovest di Civitella, parlava sei lingue e spesso faceva da interprete per le truppe tedesche che avevano il comando a Villa Carletti a Monte San Savino. Secondo molti in paese la donna, la cui casa era un punto di incontro per gli ufficiali, poteva essere una spia. Era lei che aveva riferito dei soldati morti al comandante, mentre sembrava che i loro compagni avessero taciuto la cosa, dando origine alla convinzione che fossero disertori in fuga. Un Maresciallo tedesco, giunto a Civitella in una Balilla, si incontrò col prete e provvide alle bare per il funerale dei soldati defunti. Alle tre del pomeriggio per il funerale arrivò un camion pieno di soldati tedeschi armati fino ai denti e arrivarono anche un paio di macchine. Durante il funerale furono sparati vari colpi di fucile, dopo di che i tedeschi cominciarono immediatamente ad indagare su chi fossero stati gli autori del crimine. Nessuno parlò. A Pozzone acciuffarono quindici persone - donne, bambini e uno o due uomini - forse con l’intenzione di ucciderli, ma dietro ripetuta insistenza sulla loro innocenza da parte della signora Cau e del signor Lammioni, un funzionario dell’amministrazione locale, essi furono rilasciati.
I partigiani erano perplessi sul rapporto tra la signora Cau ed i tedeschi, ma intendevano utilizzarla a proprio vantaggio. Caroti la mandò a cercare e la portarono a cavallo insieme al marito al comando partigiano, che si era spostato in una fattoria chiamata Bollore situata su un terreno di proprietà di Don Natale Romanelli, il prete di Cornia. Nell’interrogatorio la signora Cau insistette che i loro rapporti con i tedeschi erano semplicemente di natura amichevole e culturale. Con il suo aiuto, Caroti preparò un messaggio scritto in tedesco, il cui senso era che l’incidente a Civitella era stato fortuito e che la morte dei due soldati tedeschi era dovuta al fatto che avevano opposto resistenza mentre venivano disarmati. Nel messaggio si elencavano i nomi dei sedici ostaggi catturati negli ultimi tempi dai partigiani, e si dava ad intendere che sarebbero stati liberati coloro che avessero dichiarato di volersi riunire alle proprie unità, se i tedeschi si fossero impegnati a non attaccare la popolazione civile. L’incarico di consegnare il messaggio al comando tedesco il giorno successivo fu affidato alla signora Cau, cosa che lei si dichiarò disposta a fare. Tuttavia il messaggio non fu mai consegnato. Caroti sostiene che la donna si fosse recata da Don Natale Romanelli, chiedendo a lui di consegnarlo ai tedeschi. Ma il prete non fece ciò che gli era stato chiesto, con la motivazione - successivamente dichiarata in un processo - che non voleva far precipitare gli eventi.
Poco dopo mezzogiorno del 20 giugno, Caroti e altri quindici partigiani salirono sulle colline a Bollore per un appuntamento col Renzino. Al di sotto del luogo del loro incontro, vicino alla strada che congiunge San Pancrazio a Monte San Savino, si trovava la villa-castello di Montaltuzzo, affittata da un certo Dottor Magrini. Per concessione di costui, la villa veniva usata dai partigiani come deposito armamenti, prigione e osservatorio da cui spiare i veicoli del nemico che viaggiavano sulla strada sottostante. Le armi nascoste nella villa erano state per lo più rubate durante le incursioni ai convogli di passaggio, ed i prigionieri erano stati presi tra gli equipaggi dei veicoli. Nell’area che circondava la villa erano state recise tutte le linee telefoniche, costringendo i tedeschi ad usare radio-trasmittenti o mandare messaggi tramite giovani staffette, che così rischiavano di essere intercettati. I sedici uomini, i cui nomi erano elencati nel messaggio che la signora Cau avrebbe dovuto consegnare al comando tedesco, erano stati catturati nei sei giorni successivi alla sparatoria al Dopolavoro e venivano tenuti rinchiusi nella cantina della villa.
ll giorno stesso in cui la signora Cau era stata pregata di tradurre e consegnare il messaggio, le avevano anche chiesto di interrogare altri due soldati tedeschi che erano appena stati catturati e condotti al comando partigiano. Caroti nelle sue memorie scrisse che erano due delinquenti che meritavano proprio di essere fucilati, ma che lui contava di consegnarli agli Alleati, nel caso che i tedeschi avessero risposto negativamente al messaggio dei partigiani. A quanto pare li aveva visti al suo arrivo a Bollore e aveva notato che ciascuno di loro aveva uno zaino pieno di indumenti femminili che erano stati palesemente rubati.
Caroti ed i suoi compagni sapevano che in pochi giorni avrebbero potuto trovarsi faccia a faccia con le truppe tedesche in ritirata dalla Linea Albert. Alcune delle forze in ritirata avrebbero valicato il passo a San Pancrazio dirigendosi a nord verso Firenze e la Linea Gotica, perciò i partigiani radunati a Bollore intendevano impedire la loro ritirata e intervenire ogni qual volta i tedeschi avessero tentato di rubare bestiame o cibo. Si misero a preparare un piano di attacco. Come parte di questa strategia, una compagnia di venti partigiani già si trovava in agguato dietro la fattoria detta Il Molino, che si trovava vicino alla strada che va da San Pancrazio a Monte San Savino.
Verso le quattro del pomeriggio una Fiat 1100 fu vista fermarsi in una piccola area di sosta lungo la strada e due soldati tedeschi furono visti scendere. I partigiani si mossero attraverso il bosco e un campo di grano, arrivarono a circa quindici o venti metri dai due uomini, e li disarmarono dopo aver loro intimato di alzare le mani; la macchina fu prudentemente spostata e nascosta nelle vicinanze. I due prigionieri avevano con sé parecchie bottiglie di alcolici; il partigiano Tom notò che mentre i partigiani ed i prigionieri bevevano insieme piuttosto amichevolmente, i prigionieri rivelarono che di lì a poco il loro comandante sarebbe arrivato a bordo di una moto con side-car, che di fatto apparve sulla scena poco dopo con tre uomini a bordo. Si fermò davanti alla fattoria, e proprio mentre i partigiani stavano per catturare questi ultimi tre uomini oltre ai due che avevano già preso, una donna si affacciò dalla fattoria e dette l’allarme.
L’ufficiale tedesco, che apparteneva alla Feldgendarmerie-Trupp B 1000, aprì il fuoco e nella schermaglia che ne seguì rimase ferito, mentre gli altri due uomini che erano con lui, più fortunati, riuscirono a scappare attraverso i boschi verso Verniana. Secondo il partigiano Tom, i suoi raccolsero l’uomo ferito e lo portarono al di là del corso d’acqua che scorreva lungo il campo di granturco, e poi mandarono a chiamare un medico solidale con la causa dei partigiani, un certo Dottor Uva, pregandolo di venire il più presto possibile. Tom scrisse che per loro era fondamentale cercare di salvare la vita del tedesco poiché se fosse morto dieci italiani avrebbero rischiato di seguire la sua stessa sorte. Durante l’attesa del dottore, Tom provvide a far scortare i due prigionieri al posto di comando partigiano.
Non appena arrivò il medico che indossava la Croce Rossa, il ferito, un maresciallo di circa trenta anni, fu portato all’ospedale militare tedesco allestito a Monte San Savino. Tom, fingendosi un infermiere, accompagnò i due all’ospedale, e riferì la conversazione che ebbe luogo tra di loro ed i tedeschi di stanza in quel posto. Risulta che chiesero al dottore dove fosse stato trovato il ferito, ed egli rispose che era stato trovato presso il paesino di Verniana. Gli chiesero anche quanti partigiani ci fossero nella zona, ed egli rispose che le voci parlavano di migliaia, senza riflettere sul fatto che questa affermazione avrebbe potuto portare i tedeschi a setacciare la zona alla ricerca dei cosìddetti banditi. A Tom e al dottore fu data una macchina per riportarli indietro, ma sulla strada del ritorno si imbatterono in un cartello che diceva ‘Achtung Banditen’, e allora l’autista li fece scendere per cui dovettero procedere a piedi per il resto del tragitto.
A seguito di questo incidente, tutte le compagnie del Renzino furono chiamate a presentarsi a Bollore a mezzogiorno del 23 giugno. Era chiaro a questo punto che i tedeschi stavano organizzando una retata dei partigiani con l’intenzione di sterminarli. Più in basso a Montaltuzzo sventolava la bandiera rossa, intesa sia come una provocazione per i tedeschi, sia come punto di riferimento per i partigiani; il Dottor Magrini aveva lasciato la villa il giorno precedente per unirsi alla Banda Renzino sulle colline. All’inizio della battaglia di quattro ore, ricordata da Renzino come la più importante e gloriosa nella storia della loro formazione, circa ottanta uomini furono radunati al di sopra di Montaltuzzo vicino al sentiero che andava su a Bollore. Pur essendo stati accerchiati dalle truppe della Feldgendarmerie che all’arrivo alla villa buttarono giù la porta della cantina liberando gli uomini tenuti prigionieri all’interno, i partigiani sostengono che riuscirono ad infliggere loro un consistente numero di perdite prima di ritirarsi su a Bollore. Un partigiano testimone oculare, Otello, ricorda di aver visto tre camion carichi di SS tutti in posizione orizzontale (Succhielli p. 186) ed a suo avviso c’erano per lo meno trentasei vittime tedesche. Il partigiano Tom ricordava di essersi buttato a terra in ginocchio durante la battaglia e di aver scaricato una mitragliata a tutto raggio, col risultato che tutti i tedeschi che stavano avanzando verso di lui restarono fulminati o caddero in corsa, e asserisce che lo stesso destino toccò a quelli che avanzarono per prendere il loro posto. Altre fonti registrano solo una perdita tra i tedeschi, contro due o tre tra i partigiani. Alla fine della battaglia i partigiani si ritirarono su verso la loro base di comando e il partigiano Angiolino Nappini annotò che fecero brevi tappe in varie fattorie e piccole frazioni, in particolare Poggilunghi, Solaia, Il Burrone, Capocontro, Poggioli e Cornia; lo scopo di queste brevi tappe era di accertare che il morale della nostra popolazione era ancora alto e la sua ammirazione nei nostri confronti illimitata.
(Succhielli p. 189)
Tuttavia circa la metà dei partigiani coinvolti nella battaglia non fece ritorno alla banda successivamente, e Renzino cogli altri quaranta cercò di unirsi all’ 8° Raggruppamento Patrioti ‘Monte Amiata’ guidato da Raul Ballocci, che essendo un gruppo non-comunista era riuscito a venire in possesso di armi grazie ad un lancio da aerei alleati e si stava spostando dalla sua base sul Pratomagno a Mongirato vicino Pergine sulla riva occidentale dell’Arno non lontano da Civitella.
Nel frattempo il 27 giugno un gruppo di soldati tedeschi appartenenti alla temuta Feldgendarmerie arrivò a Civitella, a quanto pare accompagnato da fascisti locali. Due o tre entrarono nel paese e andarono casa per casa a farsi dare le radio, e gli altri andarono in giro all’esterno per fare fotografie. Il 29 tutti gli abitanti erano tornati al paese, pensando che fosse passato abbastanza tempo dalle uccisioni al Dopolavoro perché si verificassero delle rappresaglie; tuttavia alle tre e mezzo circa del mattino un gruppo di una sessantina di tedeschi che, secondo lo storico locale il sacerdote Don Enrico Biagini appartenevano alle SS, ma che di fatto invece erano della 1 Fallschirmjäger-Division, lasciarono il loro campo base che si trovava al convento chiamato Le Vertighe vicino Monte San Savino e, accompagnati dalla Feldgendarmerie-Trupp B 1000 (motociclisti) della Feldgendarmerie, arrivarono sotto Civitella tra le cinque e mezzo e le sei del mattino, dopo aver fatto prigionieri durante il tragitto tutti gli uomini che avevano incontrato, mentre avevano lasciato andare le donne ed i bambini.
In chiesa il prete Don Alcide Lazzeri stava officiando alla messa in onore dei SS. Pietro e Paolo, quando qualcuno entrò ad avvertirlo che i tedeschi erano arrivati al paese. Erano armati pesantemente e indossavano l’apparato mimetico, alcuni addirittura coperti di rami di quercia. Avevano rastrellato tutte le case uccidendo tutti gli uomini che avevano trovato. Altri erano rimasti accanto alle due porte del paese e sparavano a tutti quelli che cercavano di entrare o scappare. Poi entrarono in chiesa, e fecero uscire tutte le donne ed i bambini prima di lanciare una granata e sparare diversi colpi di mitragliatrice.
“Kaput, raus”, gridarono. Alcuni uomini riuscirono a scappare dal frutteto del prete perché i due tedeschi che erano di guardia chiusero un occhio su quello che succedeva, ma sfortunatamente furono quasi tutti presi dopo da altri tedeschi che venivano su in paese e furono portati a Palazzina, sotto Civitella, soltanto per essere fucilati in quel luogo. Don Alcide fece appello ai tedeschi, offrendo se stesso in cambio degli altri. Il comandante se lo aspettava ed ebbe un momento di esitazione, ma poi dette l’ordine per l’inizio del massacro. Gli uomini furono portati fuori della chiesa sulla piazza dove i tedeschi fucilarono prima di tutti il prete, il seminarista e altri tre, poi il resto delle vittime, cinque alla volta, puntando loro la pistola alla tempia. Fra i tre che riuscirono a scappare dalla piazza c’era un giovane seminarista, Don Daniele Tiezzi, che dette una gomitata nello stomaco al tedesco che gli puntava la pistola alla tempia. Corse via, saltò da un muro alto nei cespugli fitti che c’erano sotto, rimase gravemente ferito e restò lì finché fu ritrovato più tardi quel pomeriggio da suo cugino.
I tedeschi presero i portafogli, gli orologi e gli abiti degli uomini che fucilarono in piazza. Diciassette cadaveri furono portati sulle soglie delle case e bruciati. Nel frattempo gli altri soldati si abbandonarono ad un’orgia di distruzione per tutto il paese, dando fuoco alle case e uccidendo chiunque incontrassero. Un certo signor Bidini che stava a casa sua quando i tedeschi arrivarono, prese un ceppo di legna, gli dette fuoco e lo posizionò davanti alla finestra. Quando essi videro le fiamme pensarono che la casa stesse bruciando e così non entrarono. Voci prive di fondamento sostengono addirittura che i tedeschi abbiano ucciso uno dei loro stessi uomini che si era rifiutato di uccidere le persone innocenti. Alle undici era tutto finito. Quando i tedeschi se ne andarono, i paesani che erano rimasti nascosti nel paese fuggirono.
Il partigiano Angiolino Nappini descrive le sue emozioni il giorno del massacro e ricorda quello che accadde tra i partigiani. Lui ed i suoi compagni nella Banda Renzino si trovavano sulle montagne sopra Civitella in un posto chiamato Campodalti, da cui vedevano alzarsi le fiamme provenienti dalle case sotto. Egli scrisse che
Da dentro le mura di Civitella, dalle case dov'erano i miei genitori e tutte le altre persone che mi erano più care al mondo, si levavano le fiamme. Mi figurai, in una visione pari ad una allucinazione, i volti noti dei miei cari e della mia gente senza aiuto in mezzo al fuoco. (Succhielli p. 198)
Nappini chiese a Renzino di andare in aiuto alla gente del paese ma lui dapprima si rifiutò, dicendo che nessuno sarebbe potuto arrivare fino là vivo. Quando Nappini replicò che se gli altri erano tutti codardi, lui sarebbe andato da solo, Renzino cambiò idea e un gruppo di partigiani scese giù verso Civitella, dove sentivano gli spari e le grida disperate della gente. A quel punto Renzino si girò e ordinò agli uomini di fermarsi, dicendo, 'Lo sapete, compagni, perché quei vigliacchi sono andati a sfogarsi con la popolazione di Civitella? Perché sapevano di trovarla disarmata, perché a cercare noi hanno paura.' (Succhielli p. 199) Avanzarono ancora ma incontrarono un gruppo di giovani che erano riusciti a scappare, i quali dissero loro di tornarsene da dove erano venuti, altrimenti avrebbero solo fatto peggiorare le cose.
Concluso il massacro di Civitella, i tedeschi fecero una retata e fucilarono altre diciassette persone a Palazzina, compresi due che erano riusciti a sfuggire al massacro nella piazza ma che erano stati catturati dopo. Degli uomini fucilati a Palazzina due rimasero vivi. Uno fu ferito gravemente e sorprendentemente fu assistito da alcuni tedeschi, probabilmente autisti dei convogli, che li portarono in una fattoria e gli pulirono le ferite col vinsanto.
Allo stesso tempo in cui veniva sferrato l’attacco a Civitella, un altro gruppo di tedeschi partì da Monte San Savino lungo il sentiero di montagna che va al piccolo paese di Cornia, passando per le fattorie Il Burrone e Solaia, da dove il prete Don Natale Romanelli, dopo aver celebrato la messa delle sette, era appena partito per Verniana. Dopo un chilometro circa, incontrò un amico che gli disse di tornare indietro e avvertire la gente che doveva scappare. La madre e la sorella del prete si rifiutarono di ascoltarlo, sostenendo che i tedeschi non avrebbero toccato le donne, ma a Cornia essi non risparmiarono nessuno. Alle nove, ora in cui gli uomini si erano nascosti nei boschi di Valibona, i tedeschi arrivarono. Qualcuno di loro fu testimone delle scene terribili che si verificarono. I soldati chiusero cinque donne in una casa, spararono loro e poi appiccarono il fuoco. Una donna fu colpita da una bomba a mano e saltò insieme ad un maiale. La sorella del prete, affetta da poliomielite, fu uccisa nel giardino della sua casa, che restò un mucchio di rovine. Solo la chiesa rimase intatta, ma fu bombardata in seguito dai cannoni alleati.
A Gebbia, il paese dove aveva preso residenza temporanea la famiglia Cau, i nazi-fascisti arrivarono e portarono gli uomini attraverso i boschi di Valibona alla fattoria chiamata Podere Valle, vicino al paese attiguo di San Pancrazio, dove li uccisero. Benché non furono toccati donne e bambini né furono bruciate le case, i tedeschi uccisero tutti gli animali. Durante la battaglia a Montaltuzzo il 23 giugno, i due prigionieri che precedentemente erano stati interrogati dalla signora Cau erano stati tutti e due rilasciati. Uno di loro apparteneva alla compagnia che arrivò a Gebbia, riconobbe subito la signora Cau e la accusò di essere una spia dei partigiani. Sarebbe stata arrestata, ma andò con suo marito a Villa Carletti a parlare col comandante tedesco di sua spontanea volontà. A dispetto delle loro proteste di innocenza, furono presi prigionieri entrambi e in seguito giustiziati; i loro corpi furono ritrovati otto mesi dopo sepolti a metà in una vecchia fonderia a Focardi. In tutto, tra il 29 giugno e l’arrivo della 4 British Division a Monte San Savino il 3 di luglio, in quel luogo furono uccisi una donna e quattro uomini, e prima del 29 giugno un uomo era stato impiccato, forse perché i tedeschi avevano pensato che fosse un partigiano.
Il sacrificio di vite umane il giorno 29 a Civitella ammonta a venticinque persone uccise nella piazza di fronte alla chiesa, diciassette al Ponte della Palazzina e cinquantaquattro nelle strade e nelle case, mentre quarantacinque furono uccise lo stesso giorno a Cornia e Gebbia. Tra i morti nella zona intorno a Cornia c’erano quelle famiglie sfortunate che avevano offerto rifugio e cibo ai partigiani. A Solaia una famiglia di quattro persone fu sterminata, tutti rinchiusi nella stalla, uccisi e bruciati. Fra loro c’era Modesta Rossi, a cui è stata conferita una medaglia d’oro alla memoria per l’aiuto dato ai partigiani. A Marcaggiolo undici persone furono rinchiuse in una stanza e uccise, più una donna gravemente ferita che sopravvisse. I tedeschi appiccarono fuoco alla casa. A Il Burrone altre tre famiglie furono distrutte, una delle quali con tre bambini sotto i tredici anni. Fra i morti c’era un partigiano, un albanese di nome Hasby Ismail, al quale è stata conferita una medaglia d’oro alla memoria. I loro cadaveri furono tutti bruciati come quelli della due persone uccise al Podere Cellere.
Verso le quattro del pomeriggio, sazi dell’orgia di uccisioni e incendi, i tedeschi ritornarono al loro campo base nel convento di Le Vertighe, dove in loro assenza i frati erano riusciti a ottenere informazioni da uno soldati che era cattolico. Egli aveva detto "Camerati essere andati fare caput a italiani cattivi che avere ammazzato camerati." (Biagini p. 162)
Molti di quelli che tornavano erano a piedi con un bastone sulle spalle da cui pendeva un fagotto di indumenti femminili, biancheria, coperte e altre masserizie. C’era anche una bicicletta nuova di zecca, proprietà del prete di San Pancrazio, Don Giuseppe Torelli, che avevano ammazzato insieme ai suoi parrocchiani nel paese vicino Civitella. Si gettarono a terra stanchi morti con le uniformi luride di fumo e sangue. Si scolarono una bottiglia di vino dopo l’altra e all’inizio non volevano parlare, ma alla fine un frate riuscì a far loro ammettere che avevano massacrato alcune persone. Uno o due dei sopravvissuti tornarono a Civitella il 30 e il resto della gente il primo di luglio. La vista che si prospettò loro era orrenda. Lungo tutte le strade c’erano le file di cadaveri. C’era sangue dovunque e molti cadaveri erano sfigurati a causa delle ferite di arma da fuoco. Poco rimaneva di quei corpi che erano andati parzialmente a fuoco. Molte case erano state distrutte dalle fiamme. C’era un orribile fetore ovunque. Coloro che rientrarono, pulirono i morti in uno scantinato e li portarono in chiesa. I pochi uomini che erano sopravvissuti, insieme ad alcuni altri del paese di Viciomaggio, aiutarono le donne in questo compito raccapricciante.
Il 3 luglio altre truppe tedesche appartenenti alla 1 Fallschirmjäger-Division in ritirata della Linea Albert arrivarono nella zona e si sistemarono nella chiesa di Cornia, dove distrussero tutto. Don Natale affermò che questi soldati erano stati peggiori dei loro commilitoni che erano entrati a Civitella due giorni prima. Quest’ultimi si servirono del paese come principale posizione difensiva per più di quindici giorni, creando alloggi all’esterno delle mura, dormendo nella cantine delle case che ancora erano in piedi, mettendo i materassi per terra in chiesa, non senza averla dissacrata, usando i paramenti sacri come carta da gabinetto e sparando alle immagini sacre. L’artiglieria della 4 British Division, che in quel momento si trovò già nelle vicinanze, bombardò continuamente il paese con l’intento di cercar di annientare questi tedeschi, col risultato di far crollare altre case. La torre del castello fu danneggiata, e tutta la chiesa parrocchiale andò in rovina, con la torre campanaria rasa al suolo.
Durante questo periodo continuarono le uccisioni. A Le Caselle persero la vita altre undici persone. Il 5 luglio un certo Alessandro Lammioni di Malfiano affrontò e disarmò un tedesco che aveva ripetutamente molestato una donna. Questo gli costò la vita poiché una banda di tedeschi gli scaricò addosso un’intera mitragliatrice. A Capocontro, nella fattoria dei Migliorini, diverse persone soprattutto donne e bambini fuggite da Arezzo, erano state rinchiuse in una cantina dai tedeschi mentre loro si erano allontanati momentaneamente, forse con l’idea di ucciderle dopo. Alcune delle ragazze che appartenevano a questo gruppo erano state denudate e molestate. Fortunatamente qualcuno riuscì a liberarle tutte. Tuttavia il 10 luglio in un bosco di Selvagrossa nove uomini meno fortunati furono uccisi dopo essere stati costretti a scavarsi la loro stessa fossa, ma quattro o cinque di loro riuscirono a fuggire, compreso uno gravemente ferito. Finse di essere morto e finì per essere sepolto vivo. Questo massacro potrebbe essere collegato al fatto che a San Donato vicino Badia Agnano due tedeschi erano stati uccisi per aver molestato alcune donne. Il numero dei morti tra il 29 giugno e il 9 luglio fu in totale di centosessantuno. Sfortunatamente oltre ai tedeschi furono coinvolti in questa tragedia anche alcuni compaesani. Don Natale Romanelli scrisse che c’era stata la diretta partecipazione dei tristi repubblichini dai paesi più lontani e anche più vicini. Perché alcuni soldati erano coperti di frasche? E perché alcuni furono sentiti parlare in schietto toscano? E chi insegnò ai tedeschi anche i più piccoli viottoli attraverso i campi? (Biagini pp. 163-4)
L'arrivo delle truppe britanniche
LAPIDE A CIVITELLA
Mentre a Civitella avevano luogo questi terribili eventi, finita la battaglia del Trasimeno il 29 giugno, la 4 British Division era all’inseguimento serrato della 1 Fallschirmjäger-Division e della 334 Infanterie-Division in ritirata dalla Linea Albert. Nei giorni successivi i britannici avanzarono verso nord, e il 4 luglio il 4 Reconnaissance Regiment, che era associato alla 4 Division, capeggiò l’avanzata oltre Foiano lungo la Valdichiana finché raggiunse le principali posizioni nemiche vicino Civitella. Quella sera si trovò sotto il fuoco dei mortai proveniente dalle alture attorno al paese, e un civile gli disse che, secondo lui, il nemico lo teneva con duecento uomini.
Il 7 luglio una truppa d’assalto occupò Montaltuzzo e un’altra perlustrò a costa sopra la villa dove trovò grotte e posizioni che erano state abbandonate dal nemico in tale fretta tanto da lasciare pane fresco e maiale. Il reggimento non perse tempo e furono interrogati quanti più civili possibile, incontrò anche i partigiani e li impegnò in attività di ricognizione. Da queste fonti apprese che i tedeschi si stanno abbandonando agli eccessi del saccheggio, della distruzione e di crudeltà ingiustificate a Civitella e Cornia. Le atrocità venivano perpetrate a quanto pare soprattutto dalle forze di polizia (Feldgendarmerie) che erano state inviate in Italia da recente per trattare coi civili. (Diario di Guerra 4 Reconnaissance Regiment)
Tre giorni dopo, una ronda arrivò fino al piccolo borgo di Cornia trovandolo bruciato e abbandonato. Che alcuni tedeschi responsabili dei massacri non riuscissero a venire a patti con le loro coscienze dopo i fatti, si potrebbe dedurre da questo passaggio del Diario di Guerra del reggimento, che il 10 luglio riporta quanto segue:
Ancora un altro tedesco stravolto dagli effetti dell’alcol è stato catturato dalla 4 Division. Aveva bevuto fino all’eccesso, aveva cercato di dormirci sopra, e alla fine era entrato barcollante tra le nostre linee.
Bisogna ricordare che quel giorno nove persone erano state assassinate a Selvagrossa.
Il 4 Reconnaissance Regiment fu il primo tra le truppe alleate a raggiungere Civitella. Il giorno era il 16 luglio e sul Diario di Guerra si legge che
Durante la notte le nostre ronde constatarono che il nemico aveva cessato i combattimenti e si era ritirato. Una posizione, che si sapeva essere stata precedentemente occupata, fu trovata vuota eccetto un paio di pantaloni dei crucchi. Stamattina presto le ronde degli A e B Squadrons sono uscite ad esplorare le posizioni abbandonate dai nemici. Due veicoli leggeri hanno raggiunto Badia Agnano col risultato di essere mitragliati, raggiunti da colpi di mortaio e granate, mentre la fanteria era impegnata contro la retroguardia. Le pattuglie hanno occupato Cornia...e hanno trovato molte mine nella zona. Altre pattuglie...sono entrate a Civitella. Anche il paese di Civitella è distrutto, con la maggior parte delle case bruciate. Tre corpi di civili sono stati trovati in chiesa, un uomo con un colpo di pistola alla gola sotto l’altare.
Si possono solo immaginare i sentimenti dei sopravvissuti quando entrò in paese. Sono state apposte lapidi alla memoria delle truppe - erroneamente denominate The Black Watch, che sono entrate nella vicina San Pancrazio lo stesso giorno - e una strada è stata intitolata ad uno degli ufficiali che li aveva aiutati, il Captain John Percival Morgan. Il Diario della 4 Division riporta che
Tre fuggiaschi francesi che hanno raggiunto la divisione ieri confermano i racconti dei civili sulle atrocità tedesche a Civitella. Tre soldati tedeschi erano stati uccisi a colpi d’arma da fuoco dai partigiani e il paese era stato ammonito che, se i responsabili non fossero stati consegnati per le 7 del mattino seguente, le case sarebbero state bruciate. L’ultimatum era scaduto senza che i partigiani fossero traditi, e perciò poco dopo le 7 del mattino dei carri lanciafiamme guidati, si pensa, da truppe SS della Feldgendarmerie, passarono lungo le strade lanciando lingue di fuoco sulle case e attraverso le finestre. Viene riferito, con un margine di affidabilità non verificabile, che alcune donne e bambini siano morti carbonizzati nei loro letti. I nazisti poi hanno radunato nella piazza tutta la popolazione maschile che hanno potuto trovare, e li hanno uccisi tutti a mitragliate.
Un’altra unità militare appartenente alla 4 Division, il 2/4 Hampshire Regiment, che anche operava in prossimità di Civitella, aveva un rapporto nel suo Diario di Guerra che si potrebbe dire collegava il massacro alla battaglia di Montaltuzzo, dato che riporta un numero di morti tedeschi che corrisponde praticamente con quello riportato dai partigiani.
Alle 10:00 un italiano che passava vicino alla postazione della C Company disse che aveva appena lasciato Civitella della Chiana dove i partigiani erano stati ingaggiati in battaglia col nemico. I partigiani ne avevano uccisi circa 20 e la Boche aveva risposto uccidendo circa 150 civili maschi.
Se davvero veniva applicata la regola dei dieci per uno, e ci furono veramente venti morti a Montaltuzzo oltre ai tre uccisi al Dopolavoro, allora si potrebbe argomentare che centosessantuno vittime fu meno di quante se ne sarebbero potute aspettare. Come già detto, il registro tedesco dei morti di guerra menziona solo una persona uccisa nella zona il 23 giugno, la data della battaglia, e quindi se ne potrebbe dedurre che gli altri morti fossero fascisti i quali, come hanno osservato molti testimoni oculari, stavano operando assieme ai tedeschi. Se i partigiani avessero esagerato il numero dei tedeschi uccisi, per vantare la loro credibilità militare, allora bisognerebbe cercare altri pretesti per spiegare l’esecuzione di un numero così elevato di civili. Una ragione avanzata dai partigiani stessi era che i tedeschi stessero allestendo una linea difensiva che correva attraverso Civitella e la vicina San Pancrazio, e quindi volessero liberare la zona da tutte le persone che potessero aggregarsi per dare appoggio ai ‘banditi’. Altre fonti sostengono che era noto nei circoli fascisti che il prete Don Alcide fosse un anti-fascista, e l’aggressione al Dopolavoro aveva fornito loro l’alibi che aspettavano per dare una lezione a lui e alla popolazione. (Biagini p. 182)
Però, secondo partigiano Nappini, il massacro dimostrava che l’infame regola dei dieci per uno non valeva più; insisteva che né i partigiani né la gente del paese avevano creduto alle storie che erano giunte alle loro orecchie sulle uccisioni di massa nell’Alto Casentino perché all’epoca non era possibile verificare quelle voci, e comunque la gente si abbandonava alle esagerazioni quando ripeteva le storie dei crimini commessi dai nazisti e dai loro camerati. Sosteneva che se la gente avesse creduto a quello che aveva sentito, la maggior parte di loro si sarebbe messa in salvo da qualche altra parte. Aggiunge che per quanto riguarda i partigiani della Banda Renzino, anche se avessero saputo quali potessero essere le conseguenze ferali, la loro condotta nella Guerra di Liberazione sarebbe stata sostanzialmente la stessa. Egli evita attentamente di stabilire un collegamento tra il massacro e le azioni partigiane nel Dopolavoro ed a Montaltuzzo. Secondo lui anche dopo il massacro la gente del posto ancora teneva i partigiani in grande considerazione, ma non voleva più che essi affrontassero i tedeschi. Laddove prima avevano detto, “Ci sono i tedeschi, andate ad attaccarli”, dopo dicevano, “Ci sono i tedeschi. Per l’amor del cielo non fatevi neanche vedere”
L’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza riporta quanto segue:
La Banda Renzino si trovò a operare in una zona particolarmente difficile sotto l’aspetto logistico, perché fittamente popolata e immediatamente accessibile al nemico. Nel giugno 1944, allorché furono costretti a fuggire verso nord sotto rincalzare degli Alleati, i tedeschi per assicurarsi la via di ritirata decisero di metter in atto in questa zona un'azione terroristica su larga scala, distruggendo centri abitati e popolazioni inermi. Il 29/06/1944 si ebbero così la tremenda strage di Civitella… Poiché si tratta delle stesse località che nei giorni precedenti le stragi avevano visto in azione i partigiani di Renzino, nel dopo guerra venne condotta un'astiosa polemica che mirava a far cadere su di loro la responsabilità degli eccidi. Ma questi, in realtà non erano altro che espressioni della criminale condotta di guerra dei nazi-fascisti. (Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza p. 89)
Il 7 luglio una truppa d’assalto occupò Montaltuzzo e un’altra perlustrò a costa sopra la villa dove trovò grotte e posizioni che erano state abbandonate dal nemico in tale fretta tanto da lasciare pane fresco e maiale. Il reggimento non perse tempo e furono interrogati quanti più civili possibile, incontrò anche i partigiani e li impegnò in attività di ricognizione. Da queste fonti apprese che i tedeschi si stanno abbandonando agli eccessi del saccheggio, della distruzione e di crudeltà ingiustificate a Civitella e Cornia. Le atrocità venivano perpetrate a quanto pare soprattutto dalle forze di polizia (Feldgendarmerie) che erano state inviate in Italia da recente per trattare coi civili. (Diario di Guerra 4 Reconnaissance Regiment)
Tre giorni dopo, una ronda arrivò fino al piccolo borgo di Cornia trovandolo bruciato e abbandonato. Che alcuni tedeschi responsabili dei massacri non riuscissero a venire a patti con le loro coscienze dopo i fatti, si potrebbe dedurre da questo passaggio del Diario di Guerra del reggimento, che il 10 luglio riporta quanto segue:
Ancora un altro tedesco stravolto dagli effetti dell’alcol è stato catturato dalla 4 Division. Aveva bevuto fino all’eccesso, aveva cercato di dormirci sopra, e alla fine era entrato barcollante tra le nostre linee.
Bisogna ricordare che quel giorno nove persone erano state assassinate a Selvagrossa.
Il 4 Reconnaissance Regiment fu il primo tra le truppe alleate a raggiungere Civitella. Il giorno era il 16 luglio e sul Diario di Guerra si legge che
Durante la notte le nostre ronde constatarono che il nemico aveva cessato i combattimenti e si era ritirato. Una posizione, che si sapeva essere stata precedentemente occupata, fu trovata vuota eccetto un paio di pantaloni dei crucchi. Stamattina presto le ronde degli A e B Squadrons sono uscite ad esplorare le posizioni abbandonate dai nemici. Due veicoli leggeri hanno raggiunto Badia Agnano col risultato di essere mitragliati, raggiunti da colpi di mortaio e granate, mentre la fanteria era impegnata contro la retroguardia. Le pattuglie hanno occupato Cornia...e hanno trovato molte mine nella zona. Altre pattuglie...sono entrate a Civitella. Anche il paese di Civitella è distrutto, con la maggior parte delle case bruciate. Tre corpi di civili sono stati trovati in chiesa, un uomo con un colpo di pistola alla gola sotto l’altare.
Si possono solo immaginare i sentimenti dei sopravvissuti quando entrò in paese. Sono state apposte lapidi alla memoria delle truppe - erroneamente denominate The Black Watch, che sono entrate nella vicina San Pancrazio lo stesso giorno - e una strada è stata intitolata ad uno degli ufficiali che li aveva aiutati, il Captain John Percival Morgan. Il Diario della 4 Division riporta che
Tre fuggiaschi francesi che hanno raggiunto la divisione ieri confermano i racconti dei civili sulle atrocità tedesche a Civitella. Tre soldati tedeschi erano stati uccisi a colpi d’arma da fuoco dai partigiani e il paese era stato ammonito che, se i responsabili non fossero stati consegnati per le 7 del mattino seguente, le case sarebbero state bruciate. L’ultimatum era scaduto senza che i partigiani fossero traditi, e perciò poco dopo le 7 del mattino dei carri lanciafiamme guidati, si pensa, da truppe SS della Feldgendarmerie, passarono lungo le strade lanciando lingue di fuoco sulle case e attraverso le finestre. Viene riferito, con un margine di affidabilità non verificabile, che alcune donne e bambini siano morti carbonizzati nei loro letti. I nazisti poi hanno radunato nella piazza tutta la popolazione maschile che hanno potuto trovare, e li hanno uccisi tutti a mitragliate.
Un’altra unità militare appartenente alla 4 Division, il 2/4 Hampshire Regiment, che anche operava in prossimità di Civitella, aveva un rapporto nel suo Diario di Guerra che si potrebbe dire collegava il massacro alla battaglia di Montaltuzzo, dato che riporta un numero di morti tedeschi che corrisponde praticamente con quello riportato dai partigiani.
Alle 10:00 un italiano che passava vicino alla postazione della C Company disse che aveva appena lasciato Civitella della Chiana dove i partigiani erano stati ingaggiati in battaglia col nemico. I partigiani ne avevano uccisi circa 20 e la Boche aveva risposto uccidendo circa 150 civili maschi.
Se davvero veniva applicata la regola dei dieci per uno, e ci furono veramente venti morti a Montaltuzzo oltre ai tre uccisi al Dopolavoro, allora si potrebbe argomentare che centosessantuno vittime fu meno di quante se ne sarebbero potute aspettare. Come già detto, il registro tedesco dei morti di guerra menziona solo una persona uccisa nella zona il 23 giugno, la data della battaglia, e quindi se ne potrebbe dedurre che gli altri morti fossero fascisti i quali, come hanno osservato molti testimoni oculari, stavano operando assieme ai tedeschi. Se i partigiani avessero esagerato il numero dei tedeschi uccisi, per vantare la loro credibilità militare, allora bisognerebbe cercare altri pretesti per spiegare l’esecuzione di un numero così elevato di civili. Una ragione avanzata dai partigiani stessi era che i tedeschi stessero allestendo una linea difensiva che correva attraverso Civitella e la vicina San Pancrazio, e quindi volessero liberare la zona da tutte le persone che potessero aggregarsi per dare appoggio ai ‘banditi’. Altre fonti sostengono che era noto nei circoli fascisti che il prete Don Alcide fosse un anti-fascista, e l’aggressione al Dopolavoro aveva fornito loro l’alibi che aspettavano per dare una lezione a lui e alla popolazione. (Biagini p. 182)
Però, secondo partigiano Nappini, il massacro dimostrava che l’infame regola dei dieci per uno non valeva più; insisteva che né i partigiani né la gente del paese avevano creduto alle storie che erano giunte alle loro orecchie sulle uccisioni di massa nell’Alto Casentino perché all’epoca non era possibile verificare quelle voci, e comunque la gente si abbandonava alle esagerazioni quando ripeteva le storie dei crimini commessi dai nazisti e dai loro camerati. Sosteneva che se la gente avesse creduto a quello che aveva sentito, la maggior parte di loro si sarebbe messa in salvo da qualche altra parte. Aggiunge che per quanto riguarda i partigiani della Banda Renzino, anche se avessero saputo quali potessero essere le conseguenze ferali, la loro condotta nella Guerra di Liberazione sarebbe stata sostanzialmente la stessa. Egli evita attentamente di stabilire un collegamento tra il massacro e le azioni partigiane nel Dopolavoro ed a Montaltuzzo. Secondo lui anche dopo il massacro la gente del posto ancora teneva i partigiani in grande considerazione, ma non voleva più che essi affrontassero i tedeschi. Laddove prima avevano detto, “Ci sono i tedeschi, andate ad attaccarli”, dopo dicevano, “Ci sono i tedeschi. Per l’amor del cielo non fatevi neanche vedere”
L’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza riporta quanto segue:
La Banda Renzino si trovò a operare in una zona particolarmente difficile sotto l’aspetto logistico, perché fittamente popolata e immediatamente accessibile al nemico. Nel giugno 1944, allorché furono costretti a fuggire verso nord sotto rincalzare degli Alleati, i tedeschi per assicurarsi la via di ritirata decisero di metter in atto in questa zona un'azione terroristica su larga scala, distruggendo centri abitati e popolazioni inermi. Il 29/06/1944 si ebbero così la tremenda strage di Civitella… Poiché si tratta delle stesse località che nei giorni precedenti le stragi avevano visto in azione i partigiani di Renzino, nel dopo guerra venne condotta un'astiosa polemica che mirava a far cadere su di loro la responsabilità degli eccidi. Ma questi, in realtà non erano altro che espressioni della criminale condotta di guerra dei nazi-fascisti. (Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza p. 89)