Castelnuovo dei Sabbioni
LAPIDE COLLETTIVA CASTELNUOVO DEI SABBIONI
Ad ovest del fiume Arno, oltre le miniere di lignite nel Comune di Cavriglia, i Monti del Chianti si innalzano ripide fino a circa novecento metri. Presentano una vegetazione di boschi di castagni e querce, che offrirono ampio riparo a vari gruppi di partigiani impegnati a ostacolare il transito dei mezzi tedeschi sulla SS408, che da Montevarchi attraversa il passo a Badia Coltibuono fino a Gaiole in Chianti nella Provincia di Siena. All’inizio gli uomini in età di leva della cittadina di Castelnuovo dei Sabbioni che lavoravano nelle miniere non furono richiamati nelle forze armate, poiché il loro lavoro era necessario per l’estrazione delle materie prime per le industrie. Tuttavia, quando alla fine anche loro furono precettati, molti se ne andarono in montagna e crearono la Formazione ‘Chiatti’ (in seguito divenuta il 3° distaccamento della 22/aª Brigata ‘Vittorio Sinigallia’) nel febbraio 1944. La loro prima azione fu quella di rubare il grano dalla Cooperativa Agricola di Valdarno e distribuirlo alle famiglie che avevano accettato di fare il pane per loro. Anche se i partigiani sostenevano che il sabotaggio dovesse essere il loro compito principale, con linee elettriche e ponti come loro obiettivi specifici, lanciarono un attacco militare su una colonna tedesca di autocisterne che viaggiava lungo la strada per Badia Coltibuono. I camion furono bruciati, furono presi vari prigionieri tedeschi insieme ad un ufficiale della RSI e un certo numero di reclute, che poi furono in seguito tutte rilasciate.
Un altro gruppo del posto era la Formazione ‘Castellani’, in seguito divenuta il 4° distaccamento della 22/aª Brigata ‘Vittorio Sinigallia’, la cui fondazione risale al periodo immediatamente successivo all’8 settembre. Portò avanti dalle sue basi di Caiano e Casa al Monte le prime operazioni che consistevano in attacchi alle stazioni di polizia e anche ai soldati isolati per rastrellare armi, estremamente necessarie per rimpiazzare i vecchi fucili che erano le uniche armi a loro disposizione. Uno dei primi colpi della ‘Castellani’ fu la cattura di un colonnello e del suo autista compresa la macchina e la radio-trasmittente. Viene attestato che in seguito andarono in giro con quella macchina vestiti da tedeschi.
Quando il loro comando suggerì che si spostassero in direzione di Firenze, la ‘Chiatti’, composta prevalentemente da giovani minatori, fu riluttante a lasciare l’area di origine; i ragazzi volevano trovarsi nelle vicinanze nel caso fosse necessario entrare in azione per salvare l’attrezzatura mineraria. Volevano anche accelerare la liberazione del territorio rendendolo insicuro agli occupanti e favorendo così una rapida avanzata delle forze alleate. (Santoni p. 82)
Un membro della banda, Libero Santoni, racconta
E’ per questo che decidemmo di installarci con tutta la formazione partigiana nei pressi delle miniere, occupando la villa di Poggio al Vento, vicino Massa Sabbioni, residenza del direttore locale delle miniere, ma in quel momento abitata dal solo custode. Fu disposto di mantenere il massimo possibile di segretezza per questo nostro insediamento. Non si poteva uscire che di notte, l'ordine era di non mostrarsi in giro per nessuna ragione; le pattuglie uscivano a notte inoltrata e se non fossero state in grado di rientrare prima dell'alba, dovevano trascorrere il giorno nascoste altrove attendendo la notte successiva per rientrare alla villa. C'era il telefono, collegato col centralino della Società Mineraria, e potevamo attingere notizie dalla vecchia radio che ci seguiva in tutti gli spostamenti, ma che era stata quasi sempre muta per mancanza di energia elettrica negli acquartieramenti di montagna.
Un contrattempo eccezionale, inatteso e imprevedibile, ci convinse ad abbandonare in fretta questa utile e comoda posizione. La vedetta sul tetto della villa segnala un'auto leggera, militare, pare tedesca, che sta inerpicandosi verso di noi sulla strada che dalle miniere porta a Massa Sabbioni costeggiando la villa dove ci troviamo. L'auto si dirige al cancello, scende un ufficiale tedesco che suona il campanello. Ci troviamo di fronte a un colonnello tedesco, un altro ufficiale e un giovane in borghese. All'interno dell'edificio (l'auto viene subito nascosta nel parco) li interroghiamo. Cercavano il direttore delle miniere, la sua villa. Erano stati indirizzati a noi da un passante, al quale avevano chiesto indicazioni sulla villa del direttore. Il colonnello si qualificò come comandante della piazzaforte di Montevarchi, il maggiore che lo accompagnava era il commissionario per gli approvvigionamenti. Il colonnello ci disse “La scorta è rimasta in miniera e rientrerà senza di noi, ma il comando sa che avevamo un appuntamento col direttore delle miniere e ci cercheranno qui. Sicuramente la zona verrà messa a ferro e fuoco. Se ci rilasciate illesi avete la mia parola d'onore che non ci saranno conseguenze.”
Non riuscimmo a contattare nessuno del CLN locale, non era possibile conoscere rapidamente il parere del comando di brigata perché dopo il nostro rifiuto di spostarci su Firenze i contatti erano diventati sempre più sporadici. Non eravamo in grado organizzativamente di custodirli...Se avessimo avuto dei compagni in mano tedesca poteva essere l'occasione per uno scambio, ma questa circostanza non c'era.
“Le alternative sono dunque il rilascio o l'esecuzione” conclusi. Proposi il rilascio, non mancando di far notare che non avevamo mai ucciso prigionieri. Rammentai, addirittura, che anziché finirlo avevamo fatto in modo di ricoverare in ospedale un soldato tedesco che era rimasto seriamente ferito in uno scontro con noi. L'interprete si affanna a sollecitare i due ufficiali a prendere posto e partire prima che sopravvenissero ripensamenti. E loro, invece con tutta tranquillità presentano un'altra richiesta, le loro armi. “Senza, non partiamo; un ufficiale tedesco non rientra senza le armi. Sarebbe il disonore.” Restituimmo la maschine-pistole e sempre per telefono apprendemmo che i tre erano ripartiti dalla direzione delle miniere.
Fu un errore il nostro? Non credo, perché il rilascio non fu seguito da rastrellamenti...Partire, andarsene subito in montagna nei boschi più impenetrabili, nasconderci nei luoghi più inaccessibili, cambiare zona ogni giorno, questo il pensiero generale. (Santoni pp. 83-5)
Il commento di Santoni mostra che era assolutamente consapevole che qualsiasi esecuzione sarebbe stata seguita da rappresaglie.
I distaccamenti ‘Chiatti’ e ‘Castellani’ messi insieme contavano duecentodieci uomini. Sui Monti del Chianti e nelle zone pedecollinari operavano insieme a loro il distaccamento ‘Bigi’ della 24ª Brigata Garibaldi ‘Bande Esterne’ e la Brigata Droandi autonoma. I loro avversari furono sempre la Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ e le truppe della 334 Infanterie-Division del 76 Panzerkorps. Il 21 giugno due tedeschi, un ufficiale e un soldato, che erano entrati nelle fila del ‘Bigi’ spacciandosi per disertori austriaci, furono scoperti nella loro qualità di spie e furono fucilati. Il 24 giugno la Droandi combatté due battaglie contro le truppe tedesche sulla strada per Badia Coltibuono. Durante i quattro giorni successivi sulla stessa strada il ‘Bigi’ fu coinvolto in tre schermaglie coi tedeschi durante le quali due soldati furono feriti, e il 30 giugno a Le Macie (Casignano) lo stesso attaccò alcune unità tedesche impegnate nella perlustrazione della zona, costringendole a ritirarsi. Il 1° luglio i tedeschi risposero a tutta questa attività facendo saltare tutti i ponti lungo le strade attorno a Cavriglia, e sabotando le miniere di lignite e le centrali elettriche.
Un’azione che avrebbe avuto conseguenze devastanti per la popolazione locale fu condotta dal ‘Bigi’ il 3 luglio lungo la SS408, durante la quale furono distrutti quattro autocarri e rimasero uccisi nove tedeschi. Ci si poteva dunque aspettare che le rappresaglie sarebbero state nell’ordine di novanta persone, ma il numero delle vittime fu il doppio. Il 4 luglio, in risposta all’azione partigiana del giorno precedente, a Castelnuovo dei Sabbioni settantatre uomini furono massacrati dai tedeschi; nella vicina Meleto Valdarno altri novantasette persero la vita; a San Martino in Pierfranzese furono uccise quattro persone e due a Massa dei Sabbioni; il totale ammontò quindi a centosettantasei.
A Castelnuovo le truppe tedesche entrarono alle sei del mattino. Bloccarono tutte le strade di accesso, poi irruppero nelle case e rastrellarono gli abitanti. Nessuno oppose la benché minima resistenza, solo qualcuno riuscì ad intuire quello che stava per accadere e fuggì attraverso i campi. I primi spari che si sentirono furono quelli diretti a coloro che stavano fuggendo per la campagna. I nazisti dissero alle donne di allontanarsi perché stavano per dare tutto alle fiamme. Gli uomini furono tutti catturati, portati a piccoli gruppi nella piazza sotto la chiesa parrocchiale, dove furono costretti a consegnare i portafogli, gli orologi e ogni altro loro avere. Un altro gruppo radunato attorno alla zona Dispensa dello stesso paese, fra cui c’era anche il fratello del partigiano Santoni, fu portato di fronte agli uffici della Società Mineraria di Valdarno e tenuti a bada col fucile puntato.
Il sacerdote, Don Ferrante Bagiaroli, andò nella piazza e cercò di parlare col comandante tedesco, il quale gli disse quali erano le sue intenzioni. Il prete offrì se stesso assieme al sacrestano, Ivo Cristofani, nel vano tentativo di salvare i suoi parrocchiani. Informò gli uomini che stavano per essere uccisi e li invitò tutti a gridare “Sto per morire nel nome del Signore e del Paese”. Alle nove l’ufficiale tedesco dette l’ordine di allineare tutti gli uomini contro la parete nord della piazza. Fu montata una mitragliatrice nel mezzo, a quindici metri dagli uomini, ed i loro corpi furono ammucchiati uno sull’altro via via che cadevano al suolo. Solo pochi riuscirono a sfuggire - alcuni furono colpiti mentre cercavano di scappare. Il loro ‘sacrificio’ salvò gli altri allineati di fronte agli uffici della Società Mineraria. Il comandante dette ordine di bruciare i corpi e le case. Le truppe arraffarono mobili e altri arredi dalle case e li gettarono sul mucchio prima che venisse letteralmente inondato di benzina e dato alle fiamme. Quella sera i tedeschi lasciarono il paese.
Le fiamme non distrussero completamente i corpi che rimasero senza sepoltura per sei giorni finché un altro prete, Don Aldo Cuccoli, cappellano della vicina San Pancrazio (Cavriglia) ottenne il permesso dal comandante tedesco perché le donne potessero dar loro sepoltura. Quando, prostrate dal dolore, non poterono più sopportare il tanfo della putrefazione, il compito di trasferire le salme alla fossa comune fu portato a termine da alcuni partigiani che erano rimasti nascosti nelle miniere.
Un altro gruppo del posto era la Formazione ‘Castellani’, in seguito divenuta il 4° distaccamento della 22/aª Brigata ‘Vittorio Sinigallia’, la cui fondazione risale al periodo immediatamente successivo all’8 settembre. Portò avanti dalle sue basi di Caiano e Casa al Monte le prime operazioni che consistevano in attacchi alle stazioni di polizia e anche ai soldati isolati per rastrellare armi, estremamente necessarie per rimpiazzare i vecchi fucili che erano le uniche armi a loro disposizione. Uno dei primi colpi della ‘Castellani’ fu la cattura di un colonnello e del suo autista compresa la macchina e la radio-trasmittente. Viene attestato che in seguito andarono in giro con quella macchina vestiti da tedeschi.
Quando il loro comando suggerì che si spostassero in direzione di Firenze, la ‘Chiatti’, composta prevalentemente da giovani minatori, fu riluttante a lasciare l’area di origine; i ragazzi volevano trovarsi nelle vicinanze nel caso fosse necessario entrare in azione per salvare l’attrezzatura mineraria. Volevano anche accelerare la liberazione del territorio rendendolo insicuro agli occupanti e favorendo così una rapida avanzata delle forze alleate. (Santoni p. 82)
Un membro della banda, Libero Santoni, racconta
E’ per questo che decidemmo di installarci con tutta la formazione partigiana nei pressi delle miniere, occupando la villa di Poggio al Vento, vicino Massa Sabbioni, residenza del direttore locale delle miniere, ma in quel momento abitata dal solo custode. Fu disposto di mantenere il massimo possibile di segretezza per questo nostro insediamento. Non si poteva uscire che di notte, l'ordine era di non mostrarsi in giro per nessuna ragione; le pattuglie uscivano a notte inoltrata e se non fossero state in grado di rientrare prima dell'alba, dovevano trascorrere il giorno nascoste altrove attendendo la notte successiva per rientrare alla villa. C'era il telefono, collegato col centralino della Società Mineraria, e potevamo attingere notizie dalla vecchia radio che ci seguiva in tutti gli spostamenti, ma che era stata quasi sempre muta per mancanza di energia elettrica negli acquartieramenti di montagna.
Un contrattempo eccezionale, inatteso e imprevedibile, ci convinse ad abbandonare in fretta questa utile e comoda posizione. La vedetta sul tetto della villa segnala un'auto leggera, militare, pare tedesca, che sta inerpicandosi verso di noi sulla strada che dalle miniere porta a Massa Sabbioni costeggiando la villa dove ci troviamo. L'auto si dirige al cancello, scende un ufficiale tedesco che suona il campanello. Ci troviamo di fronte a un colonnello tedesco, un altro ufficiale e un giovane in borghese. All'interno dell'edificio (l'auto viene subito nascosta nel parco) li interroghiamo. Cercavano il direttore delle miniere, la sua villa. Erano stati indirizzati a noi da un passante, al quale avevano chiesto indicazioni sulla villa del direttore. Il colonnello si qualificò come comandante della piazzaforte di Montevarchi, il maggiore che lo accompagnava era il commissionario per gli approvvigionamenti. Il colonnello ci disse “La scorta è rimasta in miniera e rientrerà senza di noi, ma il comando sa che avevamo un appuntamento col direttore delle miniere e ci cercheranno qui. Sicuramente la zona verrà messa a ferro e fuoco. Se ci rilasciate illesi avete la mia parola d'onore che non ci saranno conseguenze.”
Non riuscimmo a contattare nessuno del CLN locale, non era possibile conoscere rapidamente il parere del comando di brigata perché dopo il nostro rifiuto di spostarci su Firenze i contatti erano diventati sempre più sporadici. Non eravamo in grado organizzativamente di custodirli...Se avessimo avuto dei compagni in mano tedesca poteva essere l'occasione per uno scambio, ma questa circostanza non c'era.
“Le alternative sono dunque il rilascio o l'esecuzione” conclusi. Proposi il rilascio, non mancando di far notare che non avevamo mai ucciso prigionieri. Rammentai, addirittura, che anziché finirlo avevamo fatto in modo di ricoverare in ospedale un soldato tedesco che era rimasto seriamente ferito in uno scontro con noi. L'interprete si affanna a sollecitare i due ufficiali a prendere posto e partire prima che sopravvenissero ripensamenti. E loro, invece con tutta tranquillità presentano un'altra richiesta, le loro armi. “Senza, non partiamo; un ufficiale tedesco non rientra senza le armi. Sarebbe il disonore.” Restituimmo la maschine-pistole e sempre per telefono apprendemmo che i tre erano ripartiti dalla direzione delle miniere.
Fu un errore il nostro? Non credo, perché il rilascio non fu seguito da rastrellamenti...Partire, andarsene subito in montagna nei boschi più impenetrabili, nasconderci nei luoghi più inaccessibili, cambiare zona ogni giorno, questo il pensiero generale. (Santoni pp. 83-5)
Il commento di Santoni mostra che era assolutamente consapevole che qualsiasi esecuzione sarebbe stata seguita da rappresaglie.
I distaccamenti ‘Chiatti’ e ‘Castellani’ messi insieme contavano duecentodieci uomini. Sui Monti del Chianti e nelle zone pedecollinari operavano insieme a loro il distaccamento ‘Bigi’ della 24ª Brigata Garibaldi ‘Bande Esterne’ e la Brigata Droandi autonoma. I loro avversari furono sempre la Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ e le truppe della 334 Infanterie-Division del 76 Panzerkorps. Il 21 giugno due tedeschi, un ufficiale e un soldato, che erano entrati nelle fila del ‘Bigi’ spacciandosi per disertori austriaci, furono scoperti nella loro qualità di spie e furono fucilati. Il 24 giugno la Droandi combatté due battaglie contro le truppe tedesche sulla strada per Badia Coltibuono. Durante i quattro giorni successivi sulla stessa strada il ‘Bigi’ fu coinvolto in tre schermaglie coi tedeschi durante le quali due soldati furono feriti, e il 30 giugno a Le Macie (Casignano) lo stesso attaccò alcune unità tedesche impegnate nella perlustrazione della zona, costringendole a ritirarsi. Il 1° luglio i tedeschi risposero a tutta questa attività facendo saltare tutti i ponti lungo le strade attorno a Cavriglia, e sabotando le miniere di lignite e le centrali elettriche.
Un’azione che avrebbe avuto conseguenze devastanti per la popolazione locale fu condotta dal ‘Bigi’ il 3 luglio lungo la SS408, durante la quale furono distrutti quattro autocarri e rimasero uccisi nove tedeschi. Ci si poteva dunque aspettare che le rappresaglie sarebbero state nell’ordine di novanta persone, ma il numero delle vittime fu il doppio. Il 4 luglio, in risposta all’azione partigiana del giorno precedente, a Castelnuovo dei Sabbioni settantatre uomini furono massacrati dai tedeschi; nella vicina Meleto Valdarno altri novantasette persero la vita; a San Martino in Pierfranzese furono uccise quattro persone e due a Massa dei Sabbioni; il totale ammontò quindi a centosettantasei.
A Castelnuovo le truppe tedesche entrarono alle sei del mattino. Bloccarono tutte le strade di accesso, poi irruppero nelle case e rastrellarono gli abitanti. Nessuno oppose la benché minima resistenza, solo qualcuno riuscì ad intuire quello che stava per accadere e fuggì attraverso i campi. I primi spari che si sentirono furono quelli diretti a coloro che stavano fuggendo per la campagna. I nazisti dissero alle donne di allontanarsi perché stavano per dare tutto alle fiamme. Gli uomini furono tutti catturati, portati a piccoli gruppi nella piazza sotto la chiesa parrocchiale, dove furono costretti a consegnare i portafogli, gli orologi e ogni altro loro avere. Un altro gruppo radunato attorno alla zona Dispensa dello stesso paese, fra cui c’era anche il fratello del partigiano Santoni, fu portato di fronte agli uffici della Società Mineraria di Valdarno e tenuti a bada col fucile puntato.
Il sacerdote, Don Ferrante Bagiaroli, andò nella piazza e cercò di parlare col comandante tedesco, il quale gli disse quali erano le sue intenzioni. Il prete offrì se stesso assieme al sacrestano, Ivo Cristofani, nel vano tentativo di salvare i suoi parrocchiani. Informò gli uomini che stavano per essere uccisi e li invitò tutti a gridare “Sto per morire nel nome del Signore e del Paese”. Alle nove l’ufficiale tedesco dette l’ordine di allineare tutti gli uomini contro la parete nord della piazza. Fu montata una mitragliatrice nel mezzo, a quindici metri dagli uomini, ed i loro corpi furono ammucchiati uno sull’altro via via che cadevano al suolo. Solo pochi riuscirono a sfuggire - alcuni furono colpiti mentre cercavano di scappare. Il loro ‘sacrificio’ salvò gli altri allineati di fronte agli uffici della Società Mineraria. Il comandante dette ordine di bruciare i corpi e le case. Le truppe arraffarono mobili e altri arredi dalle case e li gettarono sul mucchio prima che venisse letteralmente inondato di benzina e dato alle fiamme. Quella sera i tedeschi lasciarono il paese.
Le fiamme non distrussero completamente i corpi che rimasero senza sepoltura per sei giorni finché un altro prete, Don Aldo Cuccoli, cappellano della vicina San Pancrazio (Cavriglia) ottenne il permesso dal comandante tedesco perché le donne potessero dar loro sepoltura. Quando, prostrate dal dolore, non poterono più sopportare il tanfo della putrefazione, il compito di trasferire le salme alla fossa comune fu portato a termine da alcuni partigiani che erano rimasti nascosti nelle miniere.
Meleto Valdarno e Massa dei Sabbioni
Alle sei di quella mattina stessa Meleto Valdarno fu circondata dalle truppe tedesche. Alle sette entrarono nel paese dando la caccia agli uomini per tutte le case. Alle donne ed ai bambini fu intimato di allontanarsi, e questi lasciarono le loro case piangendo mentre gli uomini venivano radunati nel Parco della Rimembranza vicino alla chiesa. Il sacerdote, Don Giovanni Fondelli, che era stato catturato insieme a loro, invitò gli uomini a recitare l’Atto di Contrizione. Non rimase nessuno nel paese; solo alcuni uomini riuscirono a scappare per i campi. Alle dieci quelli che erano nei rifugi sentirono i colpi di mitragliatrice, dopo di che vi fu solo silenzio.
Alla una e mezza alcune donne cercarono di ritornare alle loro case per vedere che cosa era successo. Il paese stava bruciando e benché trattenute indietro dai tedeschi le donne videro alcuni cadaveri tra le fiamme. Corsero di nuovo ai loro rifugi urlando, “Sono tutti morti, li hanno fucilati; li hanno bruciati”. Alle tre del pomeriggio tutte le donne ritornarono. Scoprirono che gli uomini erano stati divisi in quattro gruppi e condotti presso alcune case rurali alle porte del paese. Dopo la fucilazione i loro corpi erano stati gettati negli edifici in fiamme. In seguito poterono essere riconosciuti solo cinquanta dei cadaveri, perciò tutte le vittime alla fine furono ancora una volta sepolte in una fossa comune.
A Massa dei Sabbioni quando arrivarono le truppe gli uomini in condizione di combattere erano già nascosti nei boschi; nel piccolo abitato collinare c’erano solo gli uomini più anziani, le donne, i bambini e il giovane prete Don Ermete Morini. I soldati ordinarono alle donne di lasciare le case. Mezzora dopo arrivarono altri soldati che avevano già dato fuoco ad una fattoria. Presero il prete, un giovanotto e un ragazzo e li condussero dietro le case. I due giovani furono messi in una stanza a piano terra di un edificio, i l prete fu portato vicino al pagliaio e malmenato. Vedendo quello che stava accadendo al prete attraverso la porta aperta dell’edificio, i due ragazzi cercarono di scappare. Il più grande fu preso e picchiato ma il più giovane riuscì a scappare attraverso i campi di granturco, inseguito dai soldati che sparavano invano. I pagliai furono incendiati e un aereo alleato, vedendo il paese in fiamme sganciò due bombe. I tedeschi cercarono rifugio e gli ostaggi fuggirono. Persero la vita due persone. Intanto a San Martino arrivarono i soldati, presero tre persone dalle loro case e li fucilarono insieme ad un altro ostaggio di identità sconosciuta.
Lo stesso giorno in cui avvenivano queste terribili rappresaglie, una fonte riporta che gli attivisti della Droandi erano impegnati a sferrare un altro attacco ai mezzi tedeschi sulla SS408 Montevarchi-Gaiole durante il quale erano stati uccisi nove uomini e altri due erano rimasti feriti. Risulta che vennero distrutti due autocarri e una motocicletta col side-car. Un’altra fonte riferisce che i partigiani della Droandi attaccarono i tedeschi che erano arrivati a Le Macie e stavano bruciando il paese, uccidendone nove e ferendone due. Qualunque sia la versione corretta, è chiaro che ci sarebbero state altre rappresaglie.
Questa volta i tedeschi erano intenzionati a individuare ed eliminare i partigiani. Santoni riporta la storia.
La rappresaglia nazista che si abbatté su Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni, San Martino e Massa Sabbioni giunse inattesa e improvvisa. Seppi degli eccidi solo nella tarda serata del giorno successivo perché non mi trovavo in formazione partigiana, ero stato colpito da un'infezione di tonsillite...Terrorizzati, gli abitanti si rifugiavano...nei boschi, accolti e aiutati dalla formazione partigiana. La mattina dell' 8 luglio era stata notata una lunga colonna di camion tedeschi carichi di truppe...Costituiva un problema la presenza della popolazione civile. Decidemmo di mettere in atto il piano di difesa elaborata da tempo. All'accampamento partigiano quella mattina c'erano circa 40 uomini. Ci dividemmo in gruppi di quattro o cinque. La manovra nemica era a tenaglia e tendeva a chiudere la formazione alla Casa al Monte o a costringere i partigiani a scendere verso Secciano, dove erano state piazzate mitragliatrici a tutte le finestre delle case...Arrivarono silenziosamente nei pressi dell'accampamento. Si dice che avessero come guida una persona del posto, il guardiano alle dipendenze di un fattore, vecchio arnese fascista...Arrivati alla Casa al Monte, uccisero tutti i bovini che i contadini avevano portato lì per metterli in salvo dalle razzie, salvo i suoi. Avvicinandosi, i tedeschi commisero l'errore di sparare ad alcuni civili che cercavano di scappare. Ne uccisero alcuni e ne ferirono altri...Due delle nostre postazioni concentrarono un nutrito fuoco di armi automatiche su di loro...lanciarono dei razzi e si ritirarono...Dopo l'attacco buona parte dei componenti della formazione partigiana si erano ritirati nella zona dell'attuale Parco di Cavriglia. Frattanto, mi ero aggregato al distaccamento Droandi che si trovava in Casignano. (Santoni pp. 88-90)
Alla una e mezza alcune donne cercarono di ritornare alle loro case per vedere che cosa era successo. Il paese stava bruciando e benché trattenute indietro dai tedeschi le donne videro alcuni cadaveri tra le fiamme. Corsero di nuovo ai loro rifugi urlando, “Sono tutti morti, li hanno fucilati; li hanno bruciati”. Alle tre del pomeriggio tutte le donne ritornarono. Scoprirono che gli uomini erano stati divisi in quattro gruppi e condotti presso alcune case rurali alle porte del paese. Dopo la fucilazione i loro corpi erano stati gettati negli edifici in fiamme. In seguito poterono essere riconosciuti solo cinquanta dei cadaveri, perciò tutte le vittime alla fine furono ancora una volta sepolte in una fossa comune.
A Massa dei Sabbioni quando arrivarono le truppe gli uomini in condizione di combattere erano già nascosti nei boschi; nel piccolo abitato collinare c’erano solo gli uomini più anziani, le donne, i bambini e il giovane prete Don Ermete Morini. I soldati ordinarono alle donne di lasciare le case. Mezzora dopo arrivarono altri soldati che avevano già dato fuoco ad una fattoria. Presero il prete, un giovanotto e un ragazzo e li condussero dietro le case. I due giovani furono messi in una stanza a piano terra di un edificio, i l prete fu portato vicino al pagliaio e malmenato. Vedendo quello che stava accadendo al prete attraverso la porta aperta dell’edificio, i due ragazzi cercarono di scappare. Il più grande fu preso e picchiato ma il più giovane riuscì a scappare attraverso i campi di granturco, inseguito dai soldati che sparavano invano. I pagliai furono incendiati e un aereo alleato, vedendo il paese in fiamme sganciò due bombe. I tedeschi cercarono rifugio e gli ostaggi fuggirono. Persero la vita due persone. Intanto a San Martino arrivarono i soldati, presero tre persone dalle loro case e li fucilarono insieme ad un altro ostaggio di identità sconosciuta.
Lo stesso giorno in cui avvenivano queste terribili rappresaglie, una fonte riporta che gli attivisti della Droandi erano impegnati a sferrare un altro attacco ai mezzi tedeschi sulla SS408 Montevarchi-Gaiole durante il quale erano stati uccisi nove uomini e altri due erano rimasti feriti. Risulta che vennero distrutti due autocarri e una motocicletta col side-car. Un’altra fonte riferisce che i partigiani della Droandi attaccarono i tedeschi che erano arrivati a Le Macie e stavano bruciando il paese, uccidendone nove e ferendone due. Qualunque sia la versione corretta, è chiaro che ci sarebbero state altre rappresaglie.
Questa volta i tedeschi erano intenzionati a individuare ed eliminare i partigiani. Santoni riporta la storia.
La rappresaglia nazista che si abbatté su Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni, San Martino e Massa Sabbioni giunse inattesa e improvvisa. Seppi degli eccidi solo nella tarda serata del giorno successivo perché non mi trovavo in formazione partigiana, ero stato colpito da un'infezione di tonsillite...Terrorizzati, gli abitanti si rifugiavano...nei boschi, accolti e aiutati dalla formazione partigiana. La mattina dell' 8 luglio era stata notata una lunga colonna di camion tedeschi carichi di truppe...Costituiva un problema la presenza della popolazione civile. Decidemmo di mettere in atto il piano di difesa elaborata da tempo. All'accampamento partigiano quella mattina c'erano circa 40 uomini. Ci dividemmo in gruppi di quattro o cinque. La manovra nemica era a tenaglia e tendeva a chiudere la formazione alla Casa al Monte o a costringere i partigiani a scendere verso Secciano, dove erano state piazzate mitragliatrici a tutte le finestre delle case...Arrivarono silenziosamente nei pressi dell'accampamento. Si dice che avessero come guida una persona del posto, il guardiano alle dipendenze di un fattore, vecchio arnese fascista...Arrivati alla Casa al Monte, uccisero tutti i bovini che i contadini avevano portato lì per metterli in salvo dalle razzie, salvo i suoi. Avvicinandosi, i tedeschi commisero l'errore di sparare ad alcuni civili che cercavano di scappare. Ne uccisero alcuni e ne ferirono altri...Due delle nostre postazioni concentrarono un nutrito fuoco di armi automatiche su di loro...lanciarono dei razzi e si ritirarono...Dopo l'attacco buona parte dei componenti della formazione partigiana si erano ritirati nella zona dell'attuale Parco di Cavriglia. Frattanto, mi ero aggregato al distaccamento Droandi che si trovava in Casignano. (Santoni pp. 88-90)
Matole
Benché Santoni faccia riferimento all’uccisione di alcuni civili, non specifica quanti morti ci furono. Tuttavia è chiaro che questo incontro coi partigiani non soddisfece il desiderio di vendetta dei tedeschi, per cui l’11 luglio questi erano di nuovo nella zona di Matole a Castelnuovo dei Sabbioni. Alle tre del pomeriggio quindici soldati tedeschi e un gruppo di fascisti scesero da una macchina e andarono a cercare gli uomini nel rifugio costruito dagli abitanti. Trovarono alcuni uomini nascosti e li portarono via sotto il rifugio verso la strada che portava a Cavriglia. Dei tredici uomini catturati e fucilati con armi automatiche, dodici morirono e uno rimase miracolosamente illeso. Non soddisfatti di tale brutalità, i tedeschi razziarono le case di Matole sotto gli occhi di donne e bambini.
Con l’inasprirsi della spirale di violenza, il 12 luglio la Droandi tornò di nuovo ad attaccare il passaggio dei tedeschi sul percorso tra Monte Maione-Secciano e San Pancrazio (Cavriglia), e nuovamente il 16 al Varco della Petraia. Fortunatamente quel giorno Arezzo cadde in mano alla 6 British Armoured Division, quindi i tedeschi cominciarono a ritirarsi ancora una volta.
Con l’inasprirsi della spirale di violenza, il 12 luglio la Droandi tornò di nuovo ad attaccare il passaggio dei tedeschi sul percorso tra Monte Maione-Secciano e San Pancrazio (Cavriglia), e nuovamente il 16 al Varco della Petraia. Fortunatamente quel giorno Arezzo cadde in mano alla 6 British Armoured Division, quindi i tedeschi cominciarono a ritirarsi ancora una volta.
L'arrivo delle truppe britanniche
Nel Comune di Cavriglia il 2/4 Hampshire Regiment della 4 British Division era alle loro calcagna e il suo Diario di Guerra riporta
21 luglio. Ore 10:05. Una compagnia avvisata di stare pronta a procedere verso Castelnuovo...Ore 10:30. Una compagnia è avanzata senza incidenti fino a raggiungere un punto circa mille iarde a nord di Cavriglia dove erano stati localizzati circa cinquanta nemici. Questi sono stati attaccati con Armi Corte e fuoco di Bren col risultato di un nemico ucciso e due feriti. Il nemico si è ritirato rapidamente a piccoli gruppi in direzione est e la A Company ha raggiunto Castelnuovo alle 17:30...Ufficiale ritenuto catturato mentre perlustrava le strade a nord di Cavriglia. Una sezione di portatori di Bren è stata inviata sul luogo e ha scoperto che l’ufficiale era stato nascosto in un riparo nel bosco da partigiani italiani. Questi partigiani italiani sono sempre più attivi di fronte a questa zona, girano in bande, provvisti di tutti i tipi di armi, e fanno un lavoro utile. Sono in grado di fornirci informazioni di grande valore.
Santoni descrive il suo rientro a Castelnuovo dei Sabbioni.
Un giorno stavo seguendo, non visto, i movimenti di una pattuglia tedesca. Udii il rumore di un'auto che si avvicinava e contemporaneamente vidi i tedeschi disperdersi e sparire. L'auto sbucò - era una jeep inglese con un ufficiale e alcuni soldati, e correva proprio nella direzione dove sicuramente si erano appostati i tedeschi. Sventolando il mitra sopra la testa, fermai la jeep. Capirono subito, e insieme facemmo fuoco sui tedeschi che, vistisi individuati, si ritirarono più a valle. Sulla loro jeep entrai a Castelnuovo dei Sabbioni, il paese delle miniere, il mio paese...L'ufficiale veniva spesso a casa mia...II governatore alleato, un inglese, accettò la collaborazione dei partigiani per il servizio di polizia, e del locale Comitato di Liberazione Nazionale per tutti i problemi civili e di lavoro. I massimi dirigenti della Società Mineraria... furono arrestati sotto l'accusa di collaborazionismo col tedesco invasore perché erano stati visti circolare con i nazisti proprio il giorno 4 luglio. (Santoni p. 95)
Nel frattempo il 16 luglio il ‘Bigi’ aveva incontrato la 5 Grenadier Guards della 6 South African Armoured Division al Varco della Petraia nella adiacente Provincia di Siena e si era unito a loro. Il 21 luglio il 2/4 Hampshire Regiment riporta
In questa area, specialmente a Castelnuovo incontrammo le prove delle atrocità tedesche. I segni erano visibili sulle pareti annerite dal fumo, dalle ossa rimaste ancora dove la Boche aveva sterminato circa un centinaio di civili e poi li aveva bruciati. Furono fatti tre prigionieri dal 735 Infantry Regiment.
Siccome la 715 Infanterie-Division alla quale apparteneva il Grenadier-Regiment 735 sostituì la Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ il 17 luglio si può dedurre che gli esecutori del massacro furono i soldati di quest’ultima unità.
Libero Santoni aveva chiaramente sulla coscienza questi massacri quando scrisse le sue memorie, come si può leggere in questo estratto.
Nel considerare essenziale la nostra presenza nella zona mineraria, non immaginavamo tuttavia che vi sarebbero state rappresaglie indiscriminate verso la popolazione civile. Una tale eventualità non sembrava neanche concepibile, tanto era mostruosa. Le notizie di altre stragi si sono avute dopo e, sempre più tardi, si è appreso cos'era avvenuto nei campi di concentramento nazisti e delle esecuzioni di massa in tanti Paesi e città d’Europa. I nostri timori riguardavano piuttosto i fascisti, che sapevamo da sempre animati da livore verso la nostra gente. Giudicavamo i tedeschi nemici, ma soldati. Sapevamo - e lo avevamo messo nel conto - che, catturati, saremmo stati torturati e passati per le armi, che magari la stessa sorte poteva essere riservata a chi ci aveva aiutato e ci era vicino; ma che si arrivasse ad infierire su persone del tutto innocenti, in modo indiscriminato, la ragione non riusciva a concepirlo. Nell'uniforme del soldato tedesco si era invece già installata la belva dell'ideologia nazista che aveva come presupposto e finalità l'annientamento delle culture con essa incompatibili, la distruzione dei territori e delle città degli altri Paesi, il genocidio delle genti diverse o non disposte a sottomettersi. (Santoni p. 82)
Anche se è credibile l’appello alla mancata conoscenza di altri massacri locali, è più che probabile però che i partigiani sapessero che alle Fosse Ardeatine molte persone innocenti avevano pagato il prezzo degli attacchi sferrati dai partigiani ai soldati tedeschi in Via Rasella a Roma. In ogni caso, gli avvisi con l’ammonizione che sarebbero state prese dieci vite italiane per ogni tedesco ucciso erano affissi in tutti i paesi. Lo stesso Santoni appunto aveva rilasciato i due ufficiali tedeschi dalla villa di Poggio al Vento per paura di rappresaglie, per cui è chiaro che i partigiani erano al corrente dei rischi che la popolazione locale avrebbe corso a seguito dei loro attacchi ai convogli tedeschi sulla strada Montevarchi-Gaiole.
21 luglio. Ore 10:05. Una compagnia avvisata di stare pronta a procedere verso Castelnuovo...Ore 10:30. Una compagnia è avanzata senza incidenti fino a raggiungere un punto circa mille iarde a nord di Cavriglia dove erano stati localizzati circa cinquanta nemici. Questi sono stati attaccati con Armi Corte e fuoco di Bren col risultato di un nemico ucciso e due feriti. Il nemico si è ritirato rapidamente a piccoli gruppi in direzione est e la A Company ha raggiunto Castelnuovo alle 17:30...Ufficiale ritenuto catturato mentre perlustrava le strade a nord di Cavriglia. Una sezione di portatori di Bren è stata inviata sul luogo e ha scoperto che l’ufficiale era stato nascosto in un riparo nel bosco da partigiani italiani. Questi partigiani italiani sono sempre più attivi di fronte a questa zona, girano in bande, provvisti di tutti i tipi di armi, e fanno un lavoro utile. Sono in grado di fornirci informazioni di grande valore.
Santoni descrive il suo rientro a Castelnuovo dei Sabbioni.
Un giorno stavo seguendo, non visto, i movimenti di una pattuglia tedesca. Udii il rumore di un'auto che si avvicinava e contemporaneamente vidi i tedeschi disperdersi e sparire. L'auto sbucò - era una jeep inglese con un ufficiale e alcuni soldati, e correva proprio nella direzione dove sicuramente si erano appostati i tedeschi. Sventolando il mitra sopra la testa, fermai la jeep. Capirono subito, e insieme facemmo fuoco sui tedeschi che, vistisi individuati, si ritirarono più a valle. Sulla loro jeep entrai a Castelnuovo dei Sabbioni, il paese delle miniere, il mio paese...L'ufficiale veniva spesso a casa mia...II governatore alleato, un inglese, accettò la collaborazione dei partigiani per il servizio di polizia, e del locale Comitato di Liberazione Nazionale per tutti i problemi civili e di lavoro. I massimi dirigenti della Società Mineraria... furono arrestati sotto l'accusa di collaborazionismo col tedesco invasore perché erano stati visti circolare con i nazisti proprio il giorno 4 luglio. (Santoni p. 95)
Nel frattempo il 16 luglio il ‘Bigi’ aveva incontrato la 5 Grenadier Guards della 6 South African Armoured Division al Varco della Petraia nella adiacente Provincia di Siena e si era unito a loro. Il 21 luglio il 2/4 Hampshire Regiment riporta
In questa area, specialmente a Castelnuovo incontrammo le prove delle atrocità tedesche. I segni erano visibili sulle pareti annerite dal fumo, dalle ossa rimaste ancora dove la Boche aveva sterminato circa un centinaio di civili e poi li aveva bruciati. Furono fatti tre prigionieri dal 735 Infantry Regiment.
Siccome la 715 Infanterie-Division alla quale apparteneva il Grenadier-Regiment 735 sostituì la Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ il 17 luglio si può dedurre che gli esecutori del massacro furono i soldati di quest’ultima unità.
Libero Santoni aveva chiaramente sulla coscienza questi massacri quando scrisse le sue memorie, come si può leggere in questo estratto.
Nel considerare essenziale la nostra presenza nella zona mineraria, non immaginavamo tuttavia che vi sarebbero state rappresaglie indiscriminate verso la popolazione civile. Una tale eventualità non sembrava neanche concepibile, tanto era mostruosa. Le notizie di altre stragi si sono avute dopo e, sempre più tardi, si è appreso cos'era avvenuto nei campi di concentramento nazisti e delle esecuzioni di massa in tanti Paesi e città d’Europa. I nostri timori riguardavano piuttosto i fascisti, che sapevamo da sempre animati da livore verso la nostra gente. Giudicavamo i tedeschi nemici, ma soldati. Sapevamo - e lo avevamo messo nel conto - che, catturati, saremmo stati torturati e passati per le armi, che magari la stessa sorte poteva essere riservata a chi ci aveva aiutato e ci era vicino; ma che si arrivasse ad infierire su persone del tutto innocenti, in modo indiscriminato, la ragione non riusciva a concepirlo. Nell'uniforme del soldato tedesco si era invece già installata la belva dell'ideologia nazista che aveva come presupposto e finalità l'annientamento delle culture con essa incompatibili, la distruzione dei territori e delle città degli altri Paesi, il genocidio delle genti diverse o non disposte a sottomettersi. (Santoni p. 82)
Anche se è credibile l’appello alla mancata conoscenza di altri massacri locali, è più che probabile però che i partigiani sapessero che alle Fosse Ardeatine molte persone innocenti avevano pagato il prezzo degli attacchi sferrati dai partigiani ai soldati tedeschi in Via Rasella a Roma. In ogni caso, gli avvisi con l’ammonizione che sarebbero state prese dieci vite italiane per ogni tedesco ucciso erano affissi in tutti i paesi. Lo stesso Santoni appunto aveva rilasciato i due ufficiali tedeschi dalla villa di Poggio al Vento per paura di rappresaglie, per cui è chiaro che i partigiani erano al corrente dei rischi che la popolazione locale avrebbe corso a seguito dei loro attacchi ai convogli tedeschi sulla strada Montevarchi-Gaiole.