Cortona
Il Comune di Cortona si estende dalla zona della bonifica della Valdichiana attraverso l’Appennino occidentale e giù per la Valle del Tevere. A parte Cortona stessa e uno o due abitati di qualche entità, lungo la strada che va dal Lago Trasimeno ad Arezzo la maggior parte delle comunità è costituita da piccoli paesini e villaggi. Alcuni di questi sono nascosti tra le colline e sono collegati a Cortona ed a Città di Castello per mezzo di stradine di montagna piuttosto tortuose che passano attraverso i boschi. In questa zona vari gruppi di partigiani combatterono la guerra contro il 76 Panzerkorps.
Il Gruppo Veltroni fu istituito nel dicembre 1943 da Spartaco Veltroni e durante lo stesso periodo veniva organizzata la formazione politica chiamata Partito d’Azione ad opera di Remo Ricci. Il Gruppo Patrioti ‘Libertà’ comandato da Gabriele Ciabattini operava in pianura nella zona di Fratta. La ‘Pio Borri’ era rappresentata dal 2° distaccamento ‘Favalto’, diviso in quattro squadroni sotto il comando di Angelo Ricapito. Il primo squadrone operava a nord tra Palazzo del Pero e Rassinata sotto il commando del Brig. Duddas, il secondo ad ovest nell’area che si estende tra Castiglion Fiorentino e Orzale, il terzo controllava le colline che si affacciano sulla Valle del Tevere, e il quarto sotto il commando di Bruno Valli operava nella zona di Teverina e aveva la sua base a Poggioni. Il 4 giugno un altro gruppo, conosciuto come i Partigiani di Cantalena e comandato da Angiolo Ricci, si aggregò con una squadra di quindici partigiani comandata da un cortonese... proveniente della zona di Città di Castello dove aveva disarmato vari carabinieri. (Pancrazi p. 15) Pare che questo gruppo fosse comandato dal Ten. Guerriero Baffo. Un'altra formazione, La Teppa, che operava sotto l’egida del CLN di Foiano e Cortona ed era comandato da Aldo Scopini, si stabilì a Cantalena. (Catorcioni p.14) Inoltre c’erano gruppi di partigiani, come la Banda Bortoloni, meglio descritti col termine usato dai tedeschi di ‘banditi’, che sembravano non essere affiliati a qualsivoglia organizzazione politica.
Importanti fonti di informazione su quello che succedeva attorno a Cortona sono quelle fornite dai parroci, che erano stati incaricati dal vescovo di Cortona Mons. Giuseppe Franciolini di tenere un diario degli eventi. Alcuni di loro presero la cosa molto sul serio e scrissero non solo quello che accadeva nella loro parrocchia ma anche quello che riguardava i gruppi di partigiani e come erano costituiti.
Don Giovanni Salvi, il prete del paesino di Tornia, descrive quello che accadde nella sua parrocchia nel dicembre del 1944 come segue
Tornia, piccola, povera, nascosta in mezzo ai monti, senza strada, scuola, senza parroco che qui dimori, è ritenuta dall'opinione del Comune (di Cortona) come il luogo di condanna a cui venga destinato chi abbia commesso qualche fallo...Da quando i bombardamenti aerei si fecero più intensi e più vicini...Nobili, ricchi, professionisti ecc. si ricordarono in quel momento che, nascosta fra i monti, esisteva la piccola e dimenticata frazione di Tornia. Era una gara nel richiedere una qualsiasi stanza o capanna dove poter passare quei tristi giorni un po' più sicuri...Giovani ricercati dalla polizia nazi-fascista perché renitenti al servizio militare, vennero a rifugiarsi fra i nostri monti, al paese a cui meno avevano pensato. La buona popolazione, quando era necessario, provvedeva loro il cibo ed anche un luogo ricoperto dove riposarsi. (Pancrazi pp. 3-4)
Il sacerdote prosegue con la descrizione della formazione di piccole bande di partigiani. Lui era dell’opinione che non tutti questi gruppi avessero come loro obiettivo principale quello di affiancare gli Alleati per scacciare i tedeschi. Afferma che tale pretesto dava loro l’opportunità di vagare per la campagna; essendo armati, costituivano una fonte di terrore per la popolazione perché spinti o dalla fame o dal vagabondaggio, facevano sgradite visite nelle case dove sapevano di trovare danaro o generi per la banda o per il loro fini particolari. (Pancrazi p. 4) Sostiene che spesso mancava la serenità all’interno di questi gruppi, dato che i loro membri non necessariamente condividevano la stessa filosofia e gli stessi ideali, e all’inizio non si erano dati nessun tipo di regole.
La parrocchia di Don Giovanni Basanieri includeva la montagna di S. Egidio, sul cui versante settentrionale si trova Cantalena. Scrisse:
Correva voce insistente a Cortona, che S. Egidio fosse gremito di partigiani; in realtà alcuni bravi giovani sfuggiti alla leva repubblicana stavano lì in attesa della liberazione. (Pancrazi p. 14)
Il 25 aprile Siro Rossetti, il comandante della Divisione Arezzo, fece una visita a S. Egidio di Cortona insieme ad un commissario della divisione, un ebreo di nome Eugenio Calò. Secondo Don Giovanni, Rossetti e Calò
vennero con l’intento di organizzare in Cortona il Comitato di Liberazione e una buona squadra di partigiani. Il viaggio per vari motivi fu vano; fu tuttavia formata una squadra di partigiani a Cantalena, e vi rimase sino alla fine di maggio, intenta a rifornirsi di armi dando l'assalto a varie Caserme di Carabinieri. S. Egidio serviva loro come posto di sosta e di ristoro, ma non vi presero mai fissa dimora. Anche S. Egidio partecipò alla dimostrazione dei partigiani il 26 maggio, quando scadendo il termine della leva repubblicana, con gli innumerevoli falò, dicevano ai fascisti: Se ci volete, venite a prenderci. (Pancrazi p. 14)
Un altro tentativo di organizzare i partigiani sotto l’egida della Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’ si svolse il 26 maggio, quando Luigi Valentini del 1° squadrone del ‘Favalto’, insieme a Calò ed un altro partigiano di nome Izzo, si erano messi in contatto con i Partigiani di Cantalena, con la prospettiva di aggregare le loro forze. Per motivi sconosciuti il gruppo respinse la proposta.
Sia Don Giovanni Basanieri che il prete di Cantalena Don Rodolfo Catorcioni menzionano La Teppa, la seconda banda che si stablilì a Cantalena, nei loro diari. Don Giovanni dice che nella prima quindicina di giugno si formava una squadra di partigiani chiamata La Teppa, formata per lo più di giovani di Foiano della Chiana e di cortonesi. (Pancrazi p. 15)
Don Rodolfo scrive quanto segue:
Verso la fine di maggio si stabilisce nella zona un gruppo di partigiani che pian piano s'ingrossa fino ad arrivare a un centinaio. Il gruppo proveniva da Foiano e si proclama comunista; in realtà alcuni dei suoi componenti tiravano a spogliare i possidenti e fare grosse baldorie. Il fatto più raccapricciante dovuto a certo pessimi elementi che si erano aggregati alla banda, è di avere trucidato alcuni tedeschi inermi che, abbandonato il fronte, venivano a cercare scampo tra i monti e tra i partigiani. Io per adesso ho individuato solo tre cadaveri che ho fatto ricoprire alla meglio, ma è un fatto (ed è raccapricciante a dirlo) che più volte abbiamo trovato cani a rosicchiare teschi ed altre ossa umane. (Pancrazi pp. 20-21).
Nel suo libro Passagio del Fronte nei Monti Cortonesi (Editrice Grafica L'Etruria Cortona 1995) Don Rodolfo adds some further details:
Quei due tedeschi, dopo una ventina di giorni the erano con i partigiani ed erano diventati amici anche di molti paesani, ai quali avevano mostrato foto con mogli e figli, per ritorsione perché un partigiano era stato ferito ad una mano da tedeschi the erano andati a rubare i polli in una casa di S. Martino, dove anche i partigiani erano andati per lo stesso scopo, furono presi, portati in un bosco, con la scusa di far legna e trucidati barbaramente a colpi di mita, mentre chiedevano aiuto e invocavano la mamma. Li lasciarono nel bosco seminterrati the poi i cani rosicchiarono le ossa. Passato II fronte, aiutato da un mio nipote, Catorcioni Giuseppe, raccolsi le ossa, le sistemai su due piccole casse e li seppellii nel cimitero locale, spedii le piastrine e in seguito II govemo tedesco recuperò le ossa portandole in Germania. Povere mamme, povere mogli, poveri figli! (Catorcioni p. 18)
La Teppa non era la sola ad essersi guadagnata una cattiva reputazione tra il clero della zona. Don Giovanni Salvi descrive una banda conosciuta come la Bortoloni che gettò pessima luce sulla reputazione dei partigiani in generale:
Un'altra squadra era formata da pochi individui per la massima parte stranieri; banda che viveva di violenze e di rapina. Richiamati al dovere dalla schiera che intendeva servire la patria, avvenne una grave scissione tra i membri...Dirigevano la banda, specialmente nelle imprese di rapina, un francese che ben conosceva la lingua italiana ed un meridionale, Zaccaria Salvatore, soprannominato Franco. (Pancrazi p. 5)
Don Giovanni Basanieri approfondisce l’argomento scendendo in dettagli:
Alla fine di maggio, e precisamente il 29 al mattino, un uomo come svenuto giaceva nel piazzale della Villa del Seminario. Trasportato da alcuni operai in una sala della villa, si constatò che era ferito gravemente al polmone destro, e chiedeva il sacerdote per confessarsi, in tasca gli furono trovate una bomba e pallottole dum-dum; alla domanda chi fosse, rispose di essere un marocchino di nome Jean ferito dai camerati, perché voleva abbandonare la banda di assassini in cui si era trovato sin'allora e portarsi alla squadra dei partigiani di Cantalena. Fu avvertito immediatamente il comandante, allora Ricci Angiolo, dei Partigiani di Cantalena. Ma intanto un'altra squadra di partigiani circondò la villa e due russi, armati di mitra e moschetto e due rivoltelle ciascuno, chiesero di Jean. Uno di essi si chiuse solo nella sala insieme al ferito. L'altro, dopo aver accusato il ferito di essere un bandito venuto con l'intenzione di derubare e magari incendiare la villa del Seminario, teneva in amena conversazione tutti i presenti. Quindi il russo venne fuori e ordinò ai due uomini di portare il ferito fuori di casa e, toltigli tutti i documenti, a dieci metri dalla porta della villa lo finì con un colpo di rivoltella alla testa. I due russi lasciarono una buona somma di danaro, perché il morto fosse seppellito e fossero celebrate le SS. Messe per l'anima sua. Un altro intanto, di nome Bortoloni Franco, giaceva ferito nel bosco e chiese aiuto ad un operaio, ma per paura di essere scoperto dai russi, non si fece più trovare. Morì infatti nella zona di Tornia. (Pancrazi p. 14)
Don Rodolfo Catorcioni parla in generali dei ragazzi sbandati, renitenti alla leva ed ex-prigionieri di guerra alleati scappati dai campi di prigionia dopo l'armistizio dell'8 settembre che si trovavano nella sua parrocchia:
Da essi ha avuto inizio il movimento partigiano a cui hanno preso parte molti elementi sbandati italiani e stranieri. Ne ho avvicinati varii gruppi, o fermi nella zona o di passaggio. Non posso negare di aver trovato dei giovani buoni ed equilibrati, guidati da retti intendimenti, ma non posso negare anche di averne trovati alcuni dediti al saccheggio e alla rapina a mano armata mentre altri tiravano a campare la vita chiedendo con buone maniere ciò che era loro necessario. (Pancrazi p. 20)
E’ facile immaginare a quale categoria appartenesse la Banda Bortoloni.
Sulle pendici inferiori del Monte Ginezzo, a sud di S. Egidio, si trova il paese di Montanare. Il prete, Don Amilcare Caloni, descrive una banda che egli chiama la Bartoloni come composta di tre russi, due italiani e un algerino. Con ogni buona probabilità si riferiva a questa banda. Secondo una testimonianza in Menighetti Giuseppe ' Il nonno racconta la guerra', quattro uomini, tutti prigionieri di guerra dei tedeschi, sarebbero scappati da un treno (che li portava a lavorare lungo la Linea Gustav sopra Cassino) quando era fermo a Terontola. Sarebbero stati i russi Ber Bdont e Vassili Belof, il cecoslovacco Stefan Figura, ed il croato 'Moscova', che probabilmente parlasse italiano e fosse il sesto componente della banda.
Tutti facevano una brutta fine. Come è già stato indicato, Zaccaria Salvatore alias Franco Bortoloni fu ucciso dai suoi compagni. Aveva chiesto al gruppo il permesso di partire per Roma, dove lo aspettavano la moglie ed i figli, ma sembra che gli altri temessero che potesse rivelare certi segreti di cui lui e il marocchino erano entrambi a conoscenza, così nella stessa sparatoria in cui fu ferito il marocchino, fu creduto morto e abbandonato nella macchia. Il 29 maggio gli altri lo trovarono nascosto in un castagno, smascherato dalla tosse, e lo finirono con un colpo di fucile. Il 30 il prete di Tornia, Don Giovanni Salvi, che officiò il suo servizio funebre, lo trovò in possesso di 13.800 Lire, una catenina d’oro, un grosso anello d’oro e un orologio che in seguito fu restituito al suo legittimo proprietario, Don Mario Berti, il prete di Valecchie.
Don Mario racconta di come era stato ingannato quando aveva lasciato entrare in casa alcuni uomini vestiti da soldati tedeschi il 15 maggio. Due soldati che dicevano di essere disertori arrivarono a casa sua chiedendo del cibo. Mentre i due stavano mangiando, altri dieci uomini armati fino ai denti bussarono pesantemente alla porta minacciando di fare irruzione. Il prete chiese ai due che erano a tavola chi fossero ed essi risposero che si trattava di tedeschi. Allora egli aprì la porta, al che essi presero lui e la perpetua e li portarono in cucina dove li tennero sotto la minaccia delle armi intanto che i loro accoliti razziavano la casa, lasciandoli alla fine coi soli abiti che avevano indosso. Restarono lì fino a mezzanotte e minacciarono il prete di ucciderlo se fosse uscito prima del giorno successivo. Il giorno dopo tornarono e rubarono dell’olio che non erano stati capaci di portarsi via il giorno prima. Dissacrarono anche la chiesa. Considerato che l’orologio del prete fu trovato addosso allo Zaccaria, ne risulta evidente chi fossero i falsi tedeschi.
Il russo Ber Bdont ed il croato 'Moscova' furono uccisi dai tedeschi. Il 6 giugno ebbe luogo una schermaglia tra un gruppo di partigiani e alcune truppe tedesche a Palazzo Patrizi, Montanare, vicino alla casa del prete, in cui un tedesco rimase ucciso. La mattina del 7 verso mezzogiorno i tedeschi ordinarono al prete di lasciare la sua casa poiché stavano per incendiarla; la mattina presto dell’8 varie proprietà tra Valecchie e Montanare furono messe a fuoco ed I due furono catturati mentre dormivano a Pianelli. Secondo il prete di Valecchie, li uccisero a colpi di fucile insieme ai loro compagni italiani Marco Vigi, Pasquale Attoniti, Pasquale Gallorini e Domenico Baldoni. Alla casa della famiglia Baldoni fu appiccato il fuoco, e Lazzaro Gallorini fu preso in ostaggio e portato al comando tedesco di S. Angiolo in Metelliano per poi essere rilasciato per intercessione di un certo Luigi Valli.
L'altro russo, Vassili Belof, fu portato su un autocarro a La Dogana a Pergo e impiccato ad un pino prima di essere finito con due colpi al collo. Il suo corpo fu lasciato appeso come monito per i passanti e non fu tirato giù fino al giorno successivo, quando fu seppellito nel cimitero locale. Nonostante che Belof fu uno dei due assassini di 'Jean' al Seminario e responabile insieme agli altri membri della banda della rapina a casa del prete di Valecchie, Don Mario Berti, il Comune di Cortona gli ha dedicato una strada a Terontola.
Il cecoslovacco Stefan Figura fu sepolto accanto a Belof dal prete, Don Domenico Ricci, il 20 maggio in circostanze che suggeriscono che anche lui fosse stato eliminato dai suoi compagni. Il decesso doveva essere stato provocato dal bombardamento di Camucia, ma lì in quella data non risulta nessuna incursione aerea. (USAAF Operational Records January-June 1944 http://www.usaaf.net/chron/44) Dato che i due russi uccisero sia il marocchino Jean che l'italiano Zaccaria l'ipotesi non è da escludere. Perlopiù, se Figura fosse stato ucciso a Camucia è difficile che la salma fosse stata trasportata a Pergo per la sepoltura – è più probabile che il cecoslovacco andasse contro la morte nelle colline dietro Pergo.
Nelle montagne ad ovest del Tevere all’inizio di marzo ebbe origine il 2° distaccamento ‘Favalto’ della ‘Pio Borri’. Il prete di Teverina, Don Aldo Rosadoni, dice che il 25 aprile, lo stesso giorno in cui Rossetti e Calò erano a S. Egidio, una banda di uomini armati scese dal Monte Favalto nella vicina parrocchia di Seano. Facevano parte del 1° squadrone del distaccamento 'Favalto'. Quattro giorni dopo un certo fascista di Cortona di nome Nando Adreani fu ucciso in un bosco a San Leo Bastia. Il prete racconta che da allora in poi i teverinesi, il sottoscritto compreso, furono diffidati come ribelli e costretti a vivere sotto l'incubo di possibili rappresaglie. (Pancrazi p. 23)
Alla metà di giugno Angelo Ricapito, comandante del 2° distaccamento ‘Favalto’, si spostò in quella zona, dato che aveva ricevuto il compito di montare la guardia ad un campo di prigionieri nazisti e fascisti a Marzana. Una settimana dopo, il 25 giugno, ad Orzale vicino Castiglion Fiorentino, i partigiani del 2° squadrone uccisero sei tedeschi catturati mentre attaccavano il loro comando, cosa che sorprendentemente non causò rappresaglie.
Il ‘Poggioni’ - il 4° squadrone del 2° distaccamento guidato da Bruno Valli di Cortona - a cui fa riferimento Don Giovanni Salvi, dicendo che i componenti del gruppo erano tutte persone di gran cuore, non fu organizzato fino all’8 di giugno quando il Valli, insieme ad altri tre, mise insieme un gruppo di uomini decisi ad entrare in azione dopo il lungo e snervante inverno del 1943-44. Avevano pochissime armi, più che altro qualche moschetto e un paio di revolver. La madre di Valli, aiutata da un’altra donna, provvedeva al cibo per gli uomini usando la propria casa come punto di riferimento. Scrive il Valli:
Sono stati in questo periodo il fulcro intorno al quale hanno gravitato gli uomini della montagna; giovani renitenti, soldati sbandati, stranieri sfuggiti ai tedeschi, uomini volonterosi infiammati di amor patrio. (Pancrazi p. 35)
Valli dice che dapprima l’appello del General Alexander e subito dopo gli ordini dei loro stessi compagni li spinsero all’azione il giorno stesso in cui il gruppo si era formato. Sferrarono un attacco ad una Fiat appartenente alla Todt che viaggiava lungo la strada Cortona-Città di Castello; a bordo c’erano un autista italiano, un ingegnere e un ufficiale tedesco. I primi due si arresero, ma l’ufficiale oppose un po’ di resistenza, rifugiandosi dietro il veicolo e sparando una sventagliata di mitragliatrice al Valli che guidava l’azione. Rimasto illeso, il Valli uccise il tedesco con un colpo solo alla testa. L’auto e il corpo caddero giù lungo una scarpata. Fu fatto un bottino notevole durante questa schermaglia, che contava anche una mitragliatrice, un fucile e una quantità di benzina.
A seguito di questo attacco una squadra fu mandata a rilevare i movimenti dei tedeschi lungo la strada. Pioveva a dirotto, rendendo difficili le condizioni per la pattuglia, nonostante ciò il 10 giugno avvistò un veicolo per il trasporto delle truppe, due macchine e una motocicletta probabilmente appartenenti alla 15 Panzergrenadier-Division del 76 Panzerkorps. Una squadra di aerei alleati, che sorvolava la zona in quel momento, li bombardò mandandoli a fuoco; il giorno successivo i tedeschi inviarono dieci camion a raccogliere i morti e il convoglio rimase per diverse ore a Teverina senza che si verificasse alcuna rappresaglia per l’uccisione dell’ufficiale il giorno 8.
Il gruppo cominciò ad organizzarsi in maniera più efficiente, e tra il 13 e il 15 giugno cinque prigionieri restii a consegnare le armi furono presi e mandati al campo di Marzana. Il 17 fu fatto un altro prigioniero sul Monte Favalto, e il giorno successivo molti altri ancora furono catturati in uno scontro tra dieci partigiani circa e un gruppo di tedeschi intenti a rubare degli animali da una fattoria.
Il 19 giugno tutto lo squadrone entrò in azione lungo la strada Cortona-Città di Castello dopo aver ricevuto un comunicato riguardante un veicolo che si trovava fermo vari chilometri ad est della loro posizione. Una pattuglia di sei partigiani uscì e scoprì che una grande auto blindata era andata in panne ed i tre uomini che erano a bordo stavano cercando di ripararla. La pattuglia decise di sferrare un attacco a sorpresa per cercare di impedire ai tedeschi di poter rimettere in moto il veicolo, ma l’azione fallì e nonostante la pesante sparatoria riuscì a ripartire. Poco dopo la pattuglia vide una macchina privata con alcuni tedeschi a bordo e l’ attaccò da dietro. I tedeschi resistettero tenacemente, ma alla fine furono sopraffatti dal fuoco e si allontanarono con due uomini feriti. Uno partigiano, uno slavo di nome Stanho, riuscì a colpire un pneumatico dell’auto in corsa alla distanza di sessanta metri, bloccandola sulla strada. Era carica di roba – burro, cognac, cioccolata, tabacco e altre delizie; a questo ricco bottino si aggiunsero anche due fucili. Poiché all’epoca operava in zona la 305 Infanterie-Division, molto probabilmente quel veicolo apparteneva a loro.
Questo attacco si svolse nelle vicinanze della casa della famiglia Fruscoloni. Don Napoleone Fruscoloni scrisse che
il 19 giugno...verso le due, un'improvvisa scarica di fucileria rompe il silenzio dei nostri monti; poi pausa di circa dieci minuti. Quindi altra più nutrita scarica. Che era successo? I partigiani avevano aperto il fuoco prima contro un'autoblinda, e poi contro un' auto, nella stessa località prossima alla casa Fruscoloni. Ma mentre l'autoblinda riuscì a proseguire la corsa, l'auto fu colpita. I passeggeri, però, due militari, una donna e un ragazzo, rimasero incolumi e riuscirono a fuggire. Nuovo timore di reazione tedesca in tutti gli abitanti vicini, che si allontanarono dalle rispettive case. E questa volta la reazione non mancò, il mercoledì a sera 21, un centinaio di tedeschi armatissimi, provenienti di Città di Castello, arrivarono nelle vicinanze dei precedenti attacchi, e cominciarono a sparare pazzamente nei centri abitati. Ci fu un solo ferito. Sorte peggiore toccò alla casa Fruscoloni, che fu saccheggiata e incendiata. (Pancrazi p. 31)
Il Gruppo Veltroni fu istituito nel dicembre 1943 da Spartaco Veltroni e durante lo stesso periodo veniva organizzata la formazione politica chiamata Partito d’Azione ad opera di Remo Ricci. Il Gruppo Patrioti ‘Libertà’ comandato da Gabriele Ciabattini operava in pianura nella zona di Fratta. La ‘Pio Borri’ era rappresentata dal 2° distaccamento ‘Favalto’, diviso in quattro squadroni sotto il comando di Angelo Ricapito. Il primo squadrone operava a nord tra Palazzo del Pero e Rassinata sotto il commando del Brig. Duddas, il secondo ad ovest nell’area che si estende tra Castiglion Fiorentino e Orzale, il terzo controllava le colline che si affacciano sulla Valle del Tevere, e il quarto sotto il commando di Bruno Valli operava nella zona di Teverina e aveva la sua base a Poggioni. Il 4 giugno un altro gruppo, conosciuto come i Partigiani di Cantalena e comandato da Angiolo Ricci, si aggregò con una squadra di quindici partigiani comandata da un cortonese... proveniente della zona di Città di Castello dove aveva disarmato vari carabinieri. (Pancrazi p. 15) Pare che questo gruppo fosse comandato dal Ten. Guerriero Baffo. Un'altra formazione, La Teppa, che operava sotto l’egida del CLN di Foiano e Cortona ed era comandato da Aldo Scopini, si stabilì a Cantalena. (Catorcioni p.14) Inoltre c’erano gruppi di partigiani, come la Banda Bortoloni, meglio descritti col termine usato dai tedeschi di ‘banditi’, che sembravano non essere affiliati a qualsivoglia organizzazione politica.
Importanti fonti di informazione su quello che succedeva attorno a Cortona sono quelle fornite dai parroci, che erano stati incaricati dal vescovo di Cortona Mons. Giuseppe Franciolini di tenere un diario degli eventi. Alcuni di loro presero la cosa molto sul serio e scrissero non solo quello che accadeva nella loro parrocchia ma anche quello che riguardava i gruppi di partigiani e come erano costituiti.
Don Giovanni Salvi, il prete del paesino di Tornia, descrive quello che accadde nella sua parrocchia nel dicembre del 1944 come segue
Tornia, piccola, povera, nascosta in mezzo ai monti, senza strada, scuola, senza parroco che qui dimori, è ritenuta dall'opinione del Comune (di Cortona) come il luogo di condanna a cui venga destinato chi abbia commesso qualche fallo...Da quando i bombardamenti aerei si fecero più intensi e più vicini...Nobili, ricchi, professionisti ecc. si ricordarono in quel momento che, nascosta fra i monti, esisteva la piccola e dimenticata frazione di Tornia. Era una gara nel richiedere una qualsiasi stanza o capanna dove poter passare quei tristi giorni un po' più sicuri...Giovani ricercati dalla polizia nazi-fascista perché renitenti al servizio militare, vennero a rifugiarsi fra i nostri monti, al paese a cui meno avevano pensato. La buona popolazione, quando era necessario, provvedeva loro il cibo ed anche un luogo ricoperto dove riposarsi. (Pancrazi pp. 3-4)
Il sacerdote prosegue con la descrizione della formazione di piccole bande di partigiani. Lui era dell’opinione che non tutti questi gruppi avessero come loro obiettivo principale quello di affiancare gli Alleati per scacciare i tedeschi. Afferma che tale pretesto dava loro l’opportunità di vagare per la campagna; essendo armati, costituivano una fonte di terrore per la popolazione perché spinti o dalla fame o dal vagabondaggio, facevano sgradite visite nelle case dove sapevano di trovare danaro o generi per la banda o per il loro fini particolari. (Pancrazi p. 4) Sostiene che spesso mancava la serenità all’interno di questi gruppi, dato che i loro membri non necessariamente condividevano la stessa filosofia e gli stessi ideali, e all’inizio non si erano dati nessun tipo di regole.
La parrocchia di Don Giovanni Basanieri includeva la montagna di S. Egidio, sul cui versante settentrionale si trova Cantalena. Scrisse:
Correva voce insistente a Cortona, che S. Egidio fosse gremito di partigiani; in realtà alcuni bravi giovani sfuggiti alla leva repubblicana stavano lì in attesa della liberazione. (Pancrazi p. 14)
Il 25 aprile Siro Rossetti, il comandante della Divisione Arezzo, fece una visita a S. Egidio di Cortona insieme ad un commissario della divisione, un ebreo di nome Eugenio Calò. Secondo Don Giovanni, Rossetti e Calò
vennero con l’intento di organizzare in Cortona il Comitato di Liberazione e una buona squadra di partigiani. Il viaggio per vari motivi fu vano; fu tuttavia formata una squadra di partigiani a Cantalena, e vi rimase sino alla fine di maggio, intenta a rifornirsi di armi dando l'assalto a varie Caserme di Carabinieri. S. Egidio serviva loro come posto di sosta e di ristoro, ma non vi presero mai fissa dimora. Anche S. Egidio partecipò alla dimostrazione dei partigiani il 26 maggio, quando scadendo il termine della leva repubblicana, con gli innumerevoli falò, dicevano ai fascisti: Se ci volete, venite a prenderci. (Pancrazi p. 14)
Un altro tentativo di organizzare i partigiani sotto l’egida della Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’ si svolse il 26 maggio, quando Luigi Valentini del 1° squadrone del ‘Favalto’, insieme a Calò ed un altro partigiano di nome Izzo, si erano messi in contatto con i Partigiani di Cantalena, con la prospettiva di aggregare le loro forze. Per motivi sconosciuti il gruppo respinse la proposta.
Sia Don Giovanni Basanieri che il prete di Cantalena Don Rodolfo Catorcioni menzionano La Teppa, la seconda banda che si stablilì a Cantalena, nei loro diari. Don Giovanni dice che nella prima quindicina di giugno si formava una squadra di partigiani chiamata La Teppa, formata per lo più di giovani di Foiano della Chiana e di cortonesi. (Pancrazi p. 15)
Don Rodolfo scrive quanto segue:
Verso la fine di maggio si stabilisce nella zona un gruppo di partigiani che pian piano s'ingrossa fino ad arrivare a un centinaio. Il gruppo proveniva da Foiano e si proclama comunista; in realtà alcuni dei suoi componenti tiravano a spogliare i possidenti e fare grosse baldorie. Il fatto più raccapricciante dovuto a certo pessimi elementi che si erano aggregati alla banda, è di avere trucidato alcuni tedeschi inermi che, abbandonato il fronte, venivano a cercare scampo tra i monti e tra i partigiani. Io per adesso ho individuato solo tre cadaveri che ho fatto ricoprire alla meglio, ma è un fatto (ed è raccapricciante a dirlo) che più volte abbiamo trovato cani a rosicchiare teschi ed altre ossa umane. (Pancrazi pp. 20-21).
Nel suo libro Passagio del Fronte nei Monti Cortonesi (Editrice Grafica L'Etruria Cortona 1995) Don Rodolfo adds some further details:
Quei due tedeschi, dopo una ventina di giorni the erano con i partigiani ed erano diventati amici anche di molti paesani, ai quali avevano mostrato foto con mogli e figli, per ritorsione perché un partigiano era stato ferito ad una mano da tedeschi the erano andati a rubare i polli in una casa di S. Martino, dove anche i partigiani erano andati per lo stesso scopo, furono presi, portati in un bosco, con la scusa di far legna e trucidati barbaramente a colpi di mita, mentre chiedevano aiuto e invocavano la mamma. Li lasciarono nel bosco seminterrati the poi i cani rosicchiarono le ossa. Passato II fronte, aiutato da un mio nipote, Catorcioni Giuseppe, raccolsi le ossa, le sistemai su due piccole casse e li seppellii nel cimitero locale, spedii le piastrine e in seguito II govemo tedesco recuperò le ossa portandole in Germania. Povere mamme, povere mogli, poveri figli! (Catorcioni p. 18)
La Teppa non era la sola ad essersi guadagnata una cattiva reputazione tra il clero della zona. Don Giovanni Salvi descrive una banda conosciuta come la Bortoloni che gettò pessima luce sulla reputazione dei partigiani in generale:
Un'altra squadra era formata da pochi individui per la massima parte stranieri; banda che viveva di violenze e di rapina. Richiamati al dovere dalla schiera che intendeva servire la patria, avvenne una grave scissione tra i membri...Dirigevano la banda, specialmente nelle imprese di rapina, un francese che ben conosceva la lingua italiana ed un meridionale, Zaccaria Salvatore, soprannominato Franco. (Pancrazi p. 5)
Don Giovanni Basanieri approfondisce l’argomento scendendo in dettagli:
Alla fine di maggio, e precisamente il 29 al mattino, un uomo come svenuto giaceva nel piazzale della Villa del Seminario. Trasportato da alcuni operai in una sala della villa, si constatò che era ferito gravemente al polmone destro, e chiedeva il sacerdote per confessarsi, in tasca gli furono trovate una bomba e pallottole dum-dum; alla domanda chi fosse, rispose di essere un marocchino di nome Jean ferito dai camerati, perché voleva abbandonare la banda di assassini in cui si era trovato sin'allora e portarsi alla squadra dei partigiani di Cantalena. Fu avvertito immediatamente il comandante, allora Ricci Angiolo, dei Partigiani di Cantalena. Ma intanto un'altra squadra di partigiani circondò la villa e due russi, armati di mitra e moschetto e due rivoltelle ciascuno, chiesero di Jean. Uno di essi si chiuse solo nella sala insieme al ferito. L'altro, dopo aver accusato il ferito di essere un bandito venuto con l'intenzione di derubare e magari incendiare la villa del Seminario, teneva in amena conversazione tutti i presenti. Quindi il russo venne fuori e ordinò ai due uomini di portare il ferito fuori di casa e, toltigli tutti i documenti, a dieci metri dalla porta della villa lo finì con un colpo di rivoltella alla testa. I due russi lasciarono una buona somma di danaro, perché il morto fosse seppellito e fossero celebrate le SS. Messe per l'anima sua. Un altro intanto, di nome Bortoloni Franco, giaceva ferito nel bosco e chiese aiuto ad un operaio, ma per paura di essere scoperto dai russi, non si fece più trovare. Morì infatti nella zona di Tornia. (Pancrazi p. 14)
Don Rodolfo Catorcioni parla in generali dei ragazzi sbandati, renitenti alla leva ed ex-prigionieri di guerra alleati scappati dai campi di prigionia dopo l'armistizio dell'8 settembre che si trovavano nella sua parrocchia:
Da essi ha avuto inizio il movimento partigiano a cui hanno preso parte molti elementi sbandati italiani e stranieri. Ne ho avvicinati varii gruppi, o fermi nella zona o di passaggio. Non posso negare di aver trovato dei giovani buoni ed equilibrati, guidati da retti intendimenti, ma non posso negare anche di averne trovati alcuni dediti al saccheggio e alla rapina a mano armata mentre altri tiravano a campare la vita chiedendo con buone maniere ciò che era loro necessario. (Pancrazi p. 20)
E’ facile immaginare a quale categoria appartenesse la Banda Bortoloni.
Sulle pendici inferiori del Monte Ginezzo, a sud di S. Egidio, si trova il paese di Montanare. Il prete, Don Amilcare Caloni, descrive una banda che egli chiama la Bartoloni come composta di tre russi, due italiani e un algerino. Con ogni buona probabilità si riferiva a questa banda. Secondo una testimonianza in Menighetti Giuseppe ' Il nonno racconta la guerra', quattro uomini, tutti prigionieri di guerra dei tedeschi, sarebbero scappati da un treno (che li portava a lavorare lungo la Linea Gustav sopra Cassino) quando era fermo a Terontola. Sarebbero stati i russi Ber Bdont e Vassili Belof, il cecoslovacco Stefan Figura, ed il croato 'Moscova', che probabilmente parlasse italiano e fosse il sesto componente della banda.
Tutti facevano una brutta fine. Come è già stato indicato, Zaccaria Salvatore alias Franco Bortoloni fu ucciso dai suoi compagni. Aveva chiesto al gruppo il permesso di partire per Roma, dove lo aspettavano la moglie ed i figli, ma sembra che gli altri temessero che potesse rivelare certi segreti di cui lui e il marocchino erano entrambi a conoscenza, così nella stessa sparatoria in cui fu ferito il marocchino, fu creduto morto e abbandonato nella macchia. Il 29 maggio gli altri lo trovarono nascosto in un castagno, smascherato dalla tosse, e lo finirono con un colpo di fucile. Il 30 il prete di Tornia, Don Giovanni Salvi, che officiò il suo servizio funebre, lo trovò in possesso di 13.800 Lire, una catenina d’oro, un grosso anello d’oro e un orologio che in seguito fu restituito al suo legittimo proprietario, Don Mario Berti, il prete di Valecchie.
Don Mario racconta di come era stato ingannato quando aveva lasciato entrare in casa alcuni uomini vestiti da soldati tedeschi il 15 maggio. Due soldati che dicevano di essere disertori arrivarono a casa sua chiedendo del cibo. Mentre i due stavano mangiando, altri dieci uomini armati fino ai denti bussarono pesantemente alla porta minacciando di fare irruzione. Il prete chiese ai due che erano a tavola chi fossero ed essi risposero che si trattava di tedeschi. Allora egli aprì la porta, al che essi presero lui e la perpetua e li portarono in cucina dove li tennero sotto la minaccia delle armi intanto che i loro accoliti razziavano la casa, lasciandoli alla fine coi soli abiti che avevano indosso. Restarono lì fino a mezzanotte e minacciarono il prete di ucciderlo se fosse uscito prima del giorno successivo. Il giorno dopo tornarono e rubarono dell’olio che non erano stati capaci di portarsi via il giorno prima. Dissacrarono anche la chiesa. Considerato che l’orologio del prete fu trovato addosso allo Zaccaria, ne risulta evidente chi fossero i falsi tedeschi.
Il russo Ber Bdont ed il croato 'Moscova' furono uccisi dai tedeschi. Il 6 giugno ebbe luogo una schermaglia tra un gruppo di partigiani e alcune truppe tedesche a Palazzo Patrizi, Montanare, vicino alla casa del prete, in cui un tedesco rimase ucciso. La mattina del 7 verso mezzogiorno i tedeschi ordinarono al prete di lasciare la sua casa poiché stavano per incendiarla; la mattina presto dell’8 varie proprietà tra Valecchie e Montanare furono messe a fuoco ed I due furono catturati mentre dormivano a Pianelli. Secondo il prete di Valecchie, li uccisero a colpi di fucile insieme ai loro compagni italiani Marco Vigi, Pasquale Attoniti, Pasquale Gallorini e Domenico Baldoni. Alla casa della famiglia Baldoni fu appiccato il fuoco, e Lazzaro Gallorini fu preso in ostaggio e portato al comando tedesco di S. Angiolo in Metelliano per poi essere rilasciato per intercessione di un certo Luigi Valli.
L'altro russo, Vassili Belof, fu portato su un autocarro a La Dogana a Pergo e impiccato ad un pino prima di essere finito con due colpi al collo. Il suo corpo fu lasciato appeso come monito per i passanti e non fu tirato giù fino al giorno successivo, quando fu seppellito nel cimitero locale. Nonostante che Belof fu uno dei due assassini di 'Jean' al Seminario e responabile insieme agli altri membri della banda della rapina a casa del prete di Valecchie, Don Mario Berti, il Comune di Cortona gli ha dedicato una strada a Terontola.
Il cecoslovacco Stefan Figura fu sepolto accanto a Belof dal prete, Don Domenico Ricci, il 20 maggio in circostanze che suggeriscono che anche lui fosse stato eliminato dai suoi compagni. Il decesso doveva essere stato provocato dal bombardamento di Camucia, ma lì in quella data non risulta nessuna incursione aerea. (USAAF Operational Records January-June 1944 http://www.usaaf.net/chron/44) Dato che i due russi uccisero sia il marocchino Jean che l'italiano Zaccaria l'ipotesi non è da escludere. Perlopiù, se Figura fosse stato ucciso a Camucia è difficile che la salma fosse stata trasportata a Pergo per la sepoltura – è più probabile che il cecoslovacco andasse contro la morte nelle colline dietro Pergo.
Nelle montagne ad ovest del Tevere all’inizio di marzo ebbe origine il 2° distaccamento ‘Favalto’ della ‘Pio Borri’. Il prete di Teverina, Don Aldo Rosadoni, dice che il 25 aprile, lo stesso giorno in cui Rossetti e Calò erano a S. Egidio, una banda di uomini armati scese dal Monte Favalto nella vicina parrocchia di Seano. Facevano parte del 1° squadrone del distaccamento 'Favalto'. Quattro giorni dopo un certo fascista di Cortona di nome Nando Adreani fu ucciso in un bosco a San Leo Bastia. Il prete racconta che da allora in poi i teverinesi, il sottoscritto compreso, furono diffidati come ribelli e costretti a vivere sotto l'incubo di possibili rappresaglie. (Pancrazi p. 23)
Alla metà di giugno Angelo Ricapito, comandante del 2° distaccamento ‘Favalto’, si spostò in quella zona, dato che aveva ricevuto il compito di montare la guardia ad un campo di prigionieri nazisti e fascisti a Marzana. Una settimana dopo, il 25 giugno, ad Orzale vicino Castiglion Fiorentino, i partigiani del 2° squadrone uccisero sei tedeschi catturati mentre attaccavano il loro comando, cosa che sorprendentemente non causò rappresaglie.
Il ‘Poggioni’ - il 4° squadrone del 2° distaccamento guidato da Bruno Valli di Cortona - a cui fa riferimento Don Giovanni Salvi, dicendo che i componenti del gruppo erano tutte persone di gran cuore, non fu organizzato fino all’8 di giugno quando il Valli, insieme ad altri tre, mise insieme un gruppo di uomini decisi ad entrare in azione dopo il lungo e snervante inverno del 1943-44. Avevano pochissime armi, più che altro qualche moschetto e un paio di revolver. La madre di Valli, aiutata da un’altra donna, provvedeva al cibo per gli uomini usando la propria casa come punto di riferimento. Scrive il Valli:
Sono stati in questo periodo il fulcro intorno al quale hanno gravitato gli uomini della montagna; giovani renitenti, soldati sbandati, stranieri sfuggiti ai tedeschi, uomini volonterosi infiammati di amor patrio. (Pancrazi p. 35)
Valli dice che dapprima l’appello del General Alexander e subito dopo gli ordini dei loro stessi compagni li spinsero all’azione il giorno stesso in cui il gruppo si era formato. Sferrarono un attacco ad una Fiat appartenente alla Todt che viaggiava lungo la strada Cortona-Città di Castello; a bordo c’erano un autista italiano, un ingegnere e un ufficiale tedesco. I primi due si arresero, ma l’ufficiale oppose un po’ di resistenza, rifugiandosi dietro il veicolo e sparando una sventagliata di mitragliatrice al Valli che guidava l’azione. Rimasto illeso, il Valli uccise il tedesco con un colpo solo alla testa. L’auto e il corpo caddero giù lungo una scarpata. Fu fatto un bottino notevole durante questa schermaglia, che contava anche una mitragliatrice, un fucile e una quantità di benzina.
A seguito di questo attacco una squadra fu mandata a rilevare i movimenti dei tedeschi lungo la strada. Pioveva a dirotto, rendendo difficili le condizioni per la pattuglia, nonostante ciò il 10 giugno avvistò un veicolo per il trasporto delle truppe, due macchine e una motocicletta probabilmente appartenenti alla 15 Panzergrenadier-Division del 76 Panzerkorps. Una squadra di aerei alleati, che sorvolava la zona in quel momento, li bombardò mandandoli a fuoco; il giorno successivo i tedeschi inviarono dieci camion a raccogliere i morti e il convoglio rimase per diverse ore a Teverina senza che si verificasse alcuna rappresaglia per l’uccisione dell’ufficiale il giorno 8.
Il gruppo cominciò ad organizzarsi in maniera più efficiente, e tra il 13 e il 15 giugno cinque prigionieri restii a consegnare le armi furono presi e mandati al campo di Marzana. Il 17 fu fatto un altro prigioniero sul Monte Favalto, e il giorno successivo molti altri ancora furono catturati in uno scontro tra dieci partigiani circa e un gruppo di tedeschi intenti a rubare degli animali da una fattoria.
Il 19 giugno tutto lo squadrone entrò in azione lungo la strada Cortona-Città di Castello dopo aver ricevuto un comunicato riguardante un veicolo che si trovava fermo vari chilometri ad est della loro posizione. Una pattuglia di sei partigiani uscì e scoprì che una grande auto blindata era andata in panne ed i tre uomini che erano a bordo stavano cercando di ripararla. La pattuglia decise di sferrare un attacco a sorpresa per cercare di impedire ai tedeschi di poter rimettere in moto il veicolo, ma l’azione fallì e nonostante la pesante sparatoria riuscì a ripartire. Poco dopo la pattuglia vide una macchina privata con alcuni tedeschi a bordo e l’ attaccò da dietro. I tedeschi resistettero tenacemente, ma alla fine furono sopraffatti dal fuoco e si allontanarono con due uomini feriti. Uno partigiano, uno slavo di nome Stanho, riuscì a colpire un pneumatico dell’auto in corsa alla distanza di sessanta metri, bloccandola sulla strada. Era carica di roba – burro, cognac, cioccolata, tabacco e altre delizie; a questo ricco bottino si aggiunsero anche due fucili. Poiché all’epoca operava in zona la 305 Infanterie-Division, molto probabilmente quel veicolo apparteneva a loro.
Questo attacco si svolse nelle vicinanze della casa della famiglia Fruscoloni. Don Napoleone Fruscoloni scrisse che
il 19 giugno...verso le due, un'improvvisa scarica di fucileria rompe il silenzio dei nostri monti; poi pausa di circa dieci minuti. Quindi altra più nutrita scarica. Che era successo? I partigiani avevano aperto il fuoco prima contro un'autoblinda, e poi contro un' auto, nella stessa località prossima alla casa Fruscoloni. Ma mentre l'autoblinda riuscì a proseguire la corsa, l'auto fu colpita. I passeggeri, però, due militari, una donna e un ragazzo, rimasero incolumi e riuscirono a fuggire. Nuovo timore di reazione tedesca in tutti gli abitanti vicini, che si allontanarono dalle rispettive case. E questa volta la reazione non mancò, il mercoledì a sera 21, un centinaio di tedeschi armatissimi, provenienti di Città di Castello, arrivarono nelle vicinanze dei precedenti attacchi, e cominciarono a sparare pazzamente nei centri abitati. Ci fu un solo ferito. Sorte peggiore toccò alla casa Fruscoloni, che fu saccheggiata e incendiata. (Pancrazi p. 31)
Gli antefatti e l'eccidio di Falzano
Il 21 giugno, dopo una giornata di inattività dovuta alle intense piogge, il ‘Poggioni’ partì sulla strada da Teverina a Portole, e Valli ricorda che ricevettero manifestazioni di appoggio da parte della popolazione locale. Due degli uomini in marcia attaccarono un autocarro con un solo tedesco a bordo che, benché ferito, riuscì a scappare. Portarono il veicolo a Vaglie dove fu interrato dopo che il suo contenuto era stato scaricato - proiettili anti-aerea, un fucile, bombe anti-carro e varie altre cose.
Vicino Cerventosa i partigiani fecero saltare un ponte usando la dinamite, contrariamente alla richiesta fatta ai partigiani dal General Alexander, che nei suoi appelli radiofonici aveva chiesto loro di desistere dalla distruzione dei ponti, dato che tali azioni non portavano altro che al risultato di rallentare l’avanzata alleata. Quando arrivarono a Portole, attaccarono un piccolo camion con tre uomini a bordo, uno dei quali rimase ucciso mentre gli altri due scapparono per i boschi. Immediatamente dopo fu avvistato un camion più grande con l’attrezzatura per riparare i ponti che fu anch’esso attaccato. Questo ultimo cercò di accelerare per fuggire via, ma l’autista era stato ferito e perse il controllo, il camion uscì di strada e si ribaltò. Uno dei suoi occupanti fuggì, ma gli altri due benché feriti ingaggiarono battaglia e cominciarono a sparare, al che i partigiani lanciarono due bombe sul veicolo uccidendoli entrambi. Quello che era fuggito fu inseguito e catturato, e il camion fu incendiato. Il gruppo tornò indietro alla base all’aurora, dopo aver marciato tutta la notte.
Il giorno successivo alcuni tedeschi scesero da un camion a Cerventosa e cominciarono a riparare il ponte. Quando il camion fece inversione di marcia per tornare indietro avendo completato la missione, fu attaccato da un gruppo di venti partigiani. Sul camion c’erano cinque tedeschi e un prigioniero italiano che si buttò sulla strada mentre il camion si allontanava. Rimase miracolosamente illeso e fu portato dal comandante. Il 24 un altro ponte ancora fu distrutto a Cerreto sulla strada Cortona-Castiglion Fiorentino, e fu fatto un nuovo tentativo di danneggiare il ponte a Cerventosa.
Era chiaro che i tedeschi avrebbero mandato un gruppo in perlustrazione a cercare i camion attaccati il giorno 21, e il 25 si verificò il fatto, però i partigiani decisero di non agire perchè si erano avvicinati alla loro sede. Tuttavia, il giorno successivo ricevettero ordine dal comandante della ‘Pio Borri’ di attaccare i tedeschi senza riserve poiché gli Alleati si stavano avvicinando; allora una pattuglia di sei uomini, avendo incontrato un gruppo di tre tedeschi che facevano razzie alla Fattoria Crocioni ad Aiuola, da dove avevano prelevato un cavallo attaccandolo ad un carro pieno zeppo di beni rubati, entrarono in azione.
I tedeschi si rifugiarono in una casa vuota dalla quale uno riuscì a scampare alla micidiale sparatoria che ne seguì, mentre gli altri due rimasero uccisi. Allo stesso tempo al comando partigiano arrivò voce che i sei uomini della pattuglia di perlustrazione avessero bisogno di rinforzi e, benché non fosse vero, un gruppo di dieci uomini accorse sulla scena, aprendo il fuoco con una mitragliatrice sugli altri tedeschi che erano arrivati in aiuto dei loro compagni, ferendone diversi compreso un ufficiale. Dopo aver dato fuoco alla casa vicina a quella in cui erano stati uccisi i loro due uomini, i tedeschi scapparono ed i partigiani riuscirono ad estinguere l’incendio.
Il 27 le truppe tedesche, che appartenevano allo Hochgebirgs-Pioneer-Bataillon 818, tornarono nella zona della battaglia coi rinforzi e avevano praticamente la potenza di una compagnia, dato che c’erano fra cento e centocinquanta uomini oltre alle auto blindate. Con le mitragliatrici alla mano avanzarono verso il comando partigiano. I partigiani si ritirarono più a monte ed i tedeschi, che rischiavano di andarsene senza aver concluso niente, cominciarono a scatenare la loro furia sulla popolazione locale. Fecero saltare una fattoria, una chiesa e cinque case nel paese di Falzano. In una delle case fecero prigioniere undici persone e le fecero saltare insieme alla casa; una persona riuscì miracolosamente a salvarsi dall’esplosione. Altre quattro persone, tra cui una donna, furono uccise dai tedeschi sulla strada verso l’obiettivo della rappresaglia; altre due case e un gran numero di fienili ed rimesse agricole furono distrutti dal fuoco.
Dietro richiesta della popolazione locale, i partigiani del ‘Poggioni’ sospesero le loro attività per diversi giorni e nascosero le loro armi. Questa è forse la seconda occasione appena in tutta la provincia - la prima era stata a Partina - in cui un gruppo di partigiani riconobbe la propria responsabilità nella catena degli eventi che condussero ad un massacro.
I tedeschi, non consapevoli che il nemico fosse inattivo, inviarono rinforzi a proteggere la strada Cortona-Città di Castello; alcuni aerei alleati, notando tutti questi veicoli aggregati insieme, sferrarono un attacco contro di loro.
Vicino Cerventosa i partigiani fecero saltare un ponte usando la dinamite, contrariamente alla richiesta fatta ai partigiani dal General Alexander, che nei suoi appelli radiofonici aveva chiesto loro di desistere dalla distruzione dei ponti, dato che tali azioni non portavano altro che al risultato di rallentare l’avanzata alleata. Quando arrivarono a Portole, attaccarono un piccolo camion con tre uomini a bordo, uno dei quali rimase ucciso mentre gli altri due scapparono per i boschi. Immediatamente dopo fu avvistato un camion più grande con l’attrezzatura per riparare i ponti che fu anch’esso attaccato. Questo ultimo cercò di accelerare per fuggire via, ma l’autista era stato ferito e perse il controllo, il camion uscì di strada e si ribaltò. Uno dei suoi occupanti fuggì, ma gli altri due benché feriti ingaggiarono battaglia e cominciarono a sparare, al che i partigiani lanciarono due bombe sul veicolo uccidendoli entrambi. Quello che era fuggito fu inseguito e catturato, e il camion fu incendiato. Il gruppo tornò indietro alla base all’aurora, dopo aver marciato tutta la notte.
Il giorno successivo alcuni tedeschi scesero da un camion a Cerventosa e cominciarono a riparare il ponte. Quando il camion fece inversione di marcia per tornare indietro avendo completato la missione, fu attaccato da un gruppo di venti partigiani. Sul camion c’erano cinque tedeschi e un prigioniero italiano che si buttò sulla strada mentre il camion si allontanava. Rimase miracolosamente illeso e fu portato dal comandante. Il 24 un altro ponte ancora fu distrutto a Cerreto sulla strada Cortona-Castiglion Fiorentino, e fu fatto un nuovo tentativo di danneggiare il ponte a Cerventosa.
Era chiaro che i tedeschi avrebbero mandato un gruppo in perlustrazione a cercare i camion attaccati il giorno 21, e il 25 si verificò il fatto, però i partigiani decisero di non agire perchè si erano avvicinati alla loro sede. Tuttavia, il giorno successivo ricevettero ordine dal comandante della ‘Pio Borri’ di attaccare i tedeschi senza riserve poiché gli Alleati si stavano avvicinando; allora una pattuglia di sei uomini, avendo incontrato un gruppo di tre tedeschi che facevano razzie alla Fattoria Crocioni ad Aiuola, da dove avevano prelevato un cavallo attaccandolo ad un carro pieno zeppo di beni rubati, entrarono in azione.
I tedeschi si rifugiarono in una casa vuota dalla quale uno riuscì a scampare alla micidiale sparatoria che ne seguì, mentre gli altri due rimasero uccisi. Allo stesso tempo al comando partigiano arrivò voce che i sei uomini della pattuglia di perlustrazione avessero bisogno di rinforzi e, benché non fosse vero, un gruppo di dieci uomini accorse sulla scena, aprendo il fuoco con una mitragliatrice sugli altri tedeschi che erano arrivati in aiuto dei loro compagni, ferendone diversi compreso un ufficiale. Dopo aver dato fuoco alla casa vicina a quella in cui erano stati uccisi i loro due uomini, i tedeschi scapparono ed i partigiani riuscirono ad estinguere l’incendio.
Il 27 le truppe tedesche, che appartenevano allo Hochgebirgs-Pioneer-Bataillon 818, tornarono nella zona della battaglia coi rinforzi e avevano praticamente la potenza di una compagnia, dato che c’erano fra cento e centocinquanta uomini oltre alle auto blindate. Con le mitragliatrici alla mano avanzarono verso il comando partigiano. I partigiani si ritirarono più a monte ed i tedeschi, che rischiavano di andarsene senza aver concluso niente, cominciarono a scatenare la loro furia sulla popolazione locale. Fecero saltare una fattoria, una chiesa e cinque case nel paese di Falzano. In una delle case fecero prigioniere undici persone e le fecero saltare insieme alla casa; una persona riuscì miracolosamente a salvarsi dall’esplosione. Altre quattro persone, tra cui una donna, furono uccise dai tedeschi sulla strada verso l’obiettivo della rappresaglia; altre due case e un gran numero di fienili ed rimesse agricole furono distrutti dal fuoco.
Dietro richiesta della popolazione locale, i partigiani del ‘Poggioni’ sospesero le loro attività per diversi giorni e nascosero le loro armi. Questa è forse la seconda occasione appena in tutta la provincia - la prima era stata a Partina - in cui un gruppo di partigiani riconobbe la propria responsabilità nella catena degli eventi che condussero ad un massacro.
I tedeschi, non consapevoli che il nemico fosse inattivo, inviarono rinforzi a proteggere la strada Cortona-Città di Castello; alcuni aerei alleati, notando tutti questi veicoli aggregati insieme, sferrarono un attacco contro di loro.
Ruffignano
Falzano non è l’unico posto in cui i civili innocenti pagarono il prezzo di essersi trovati al momento sbagliato nel posto sbagliato. A Casale un giovane pastore di nome Ferdinando Ferri fu ucciso brutalmente mentre badava al suo gregge; da un blindato di passaggio i due occupanti a bordo, avvistati due giovani seduti in un campo, cominciarono a sparare loro con una mitragliatrice. Sentendo gli spari i due giovani tentarono di cercare rifugio, ma un colpo di fuoco ne colpì uno alla testa e una raffica successiva lo uccise mentre i tedeschi sopraggiungevano. L’altro giovane fu interrogato ma poi alla fine rilasciato dopo che ebbe mostrato i suoi documenti. Dopo di ciò i tedeschi andarono giù ad Armari, vicino Portole, dove presero il quindicenne Santino Bruni sotto gli occhi della sua famiglia; il ragazzo non fu mai più rivisto.
A Ruffignano il 29 giugno la gente che era a messa nella chiesa sentì il rumore delle raffiche di mitragliatrice proseguire per una buona mezzora. Il giorno dopo il prete, Don Igino Sembolini, corse al luogo da cui si erano sentiti provenire gli spari e trovò tre giovani morti che giacevano sulla strada. Li osservò da vicino attentamente ma non seppe riconoscerli, e non c’era niente nelle loro tasche che potesse farli identificare. Avrebbe voluto portare i loro corpi nella cappella del cimitero, ma questo non fu possibile perché i tedeschi vi montavano la guardia come era loro costume. Rimasero lì a giacere in quelle condizioni sulla strada per diversi giorni. Uno di loro era Santino Bruni che era stato catturato ad Armari. Gli altri due erano Edgardo Rapuano, uno sfollato di Firenze che era stato catturato dai tedeschi a S. Egidio dopo una battaglia che si era svolta lì coi partigiani, in cui diversi tedeschi erano rimasti feriti, il quale era stato preso per partigiano perché indossava pantaloni corti, e l’altro un giovane di nome Primo Tacconi, fatto prigioniero lungo la strada tra S. Egidio e La Croce.
A Ruffignano il 29 giugno la gente che era a messa nella chiesa sentì il rumore delle raffiche di mitragliatrice proseguire per una buona mezzora. Il giorno dopo il prete, Don Igino Sembolini, corse al luogo da cui si erano sentiti provenire gli spari e trovò tre giovani morti che giacevano sulla strada. Li osservò da vicino attentamente ma non seppe riconoscerli, e non c’era niente nelle loro tasche che potesse farli identificare. Avrebbe voluto portare i loro corpi nella cappella del cimitero, ma questo non fu possibile perché i tedeschi vi montavano la guardia come era loro costume. Rimasero lì a giacere in quelle condizioni sulla strada per diversi giorni. Uno di loro era Santino Bruni che era stato catturato ad Armari. Gli altri due erano Edgardo Rapuano, uno sfollato di Firenze che era stato catturato dai tedeschi a S. Egidio dopo una battaglia che si era svolta lì coi partigiani, in cui diversi tedeschi erano rimasti feriti, il quale era stato preso per partigiano perché indossava pantaloni corti, e l’altro un giovane di nome Primo Tacconi, fatto prigioniero lungo la strada tra S. Egidio e La Croce.
S.Egidio
La battaglia di S. Egidio era stata iniziata da La Teppa. La sera del 28 giugno un furgone tedesco con un ufficiale a bordo arrivò a S. Egidio con l’intenzione di fare man bassa. Un gruppo di partigiani che si nascondevano nei boschi attaccò il furgone immobilizzando ma senza riuscire a far prigionieri i suoi occupanti, che se la svignarono opportunamente. Non si sa se fossero stati colpiti e magari fossero morti in seguito; un cane pastore tedesco che era con loro nel furgone, andò vagando per i boschi per molti giorni prima di essere abbattuto dai partigiani. Il furgone fu portato alla villa che apparteneva al Seminario, dove fu abbandonato, ed i braccianti della fattoria impiegarono tutta la notte nel tentativo di farlo precipitare giù da un burrone in modo da farlo scomparire, dato che erano terrorizzati dalle possibili rappresaglie.
Il giorno successivo i partigiani, pensando che i tedeschi sarebbero venuti a cercare il furgone, si prepararono ad accoglierli, radunandosi sul Monte Spino da dove lanciarono tre attacchi su quei soldati che cercarono invano di risalire il fianco della collina lì vicino, e ne uccisero un numero non identificato. I partigiani non persero un solo uomo in queste schermaglie, ma un civile che tornava a casa da Cortona fu preso nel fuoco incrociato e morì proprio sulla porta di casa sua. I tedeschi ritornarono a Portole e Tornia, dove seminarono il panico tra gli abitanti prima di cercare di arrivare di nuovo alla villa, e fu allora che presero prigioniero Rapuano.Don Giovanni Salvi descrive quello che accadde a Tornia. Per fortuna circa quaranta ostaggi presi nel paese a seguito dell’attacco partigiano vicino S. Egidio furono rilasciati.
Ho appena celebrata la S. Messa parrocchiale, che un popolano mi chiama e mi addita su la località di Portole un movimento di individui ed un denso fumo che si sprigiona dal caseggiato della rivendita Sale e Tabacchi di proprietà della Famiglia Lunghi, ospite in Canonica dal momento che le bande dei partigiani avevano svolto in tale località delle operazioni d’imboscata contro convogli tedeschi. Si comprende di che si tratta i tedeschi in rappresaglia dei fatti avvenuti, incendiano ogni cosa. Avvertiamo le proprietarie ed a loro diciamo quelle poche parole di conforto che sono tanto rare in simili circostanze. Circa le ore 13, scendo giù alla piccola borgata, recandomi a pranzo dalla famiglia Anderini. Non ci siamo ancora alzati da tavola, quando irrompe in casa il piccolo seminarista della famiglia, Antonio, rimasto alla chiesa in vedetta; dall’affanno può appena articolare alcune parole “Fuggite! che ci sono tedeschi!”.
Per una uscita segreta gli uomini volano, io apro il Breviario e recitando l'Ufficio Divino m’incammino lentamente verso la Chiesa. Non ho fatto che pochi passi e mi vedo circondato da soldati tedeschi delle SS che scendendo come camosci in tutte le direzioni, hanno già stretto il paesetto in una morsa. Dico alcune parole ai due più vicini, mi danno ascolto. Prevedendo quello che era da aspettarsi, ritorno indietro deciso di condividere la sorte dei miei parrocchiani. Giù nella piazzetta centrale, sono 6 o 7 soldati che spingono donne e bambini non riusciti a fuggire, nella stanza dove prima avevo pranzato. Radunate una ventina di persone, entra un ufficiale seguito dall' interprete e da alcuni soldati. Domandano chi sia il proprietario della casa e dove si trovi XXX, uno dei familiari ritenuto come capo dei partigiani. Alle varie risposte evasive per l'inaspettata accusa, ci lasciano un momento soli, e quindi un soldato ci intima di uscire. Ad ogni angolo delle strade c’è un tedesco che ci indica dove dobbiamo dirigerci, finché ci troviamo insieme con altre persone lì radunate, sull'aia del contadino Postiferi.
Veniamo posti in fila, appoggiati ad uno stecconato che divide l'aia dalla strada; davanti a noi sono tre soldati tedeschi con mitra e pistole spianati verso di noi; un po’ a destra un fucile mitragliatore è rivolto verso il fiume, in direzione dei fuggiaschi. A destra ed a sinistra due altri soldati con relative armi sempre rivolte verso la nostra direzione. Una striscia di stoffa bianca ci indica il limite del campo di concentramento. Nel frattempo vediamo uscire in tutte le direzioni animali domestici, cacciati dalle stalle, e cortine di fumo sprigionarsi dalle case, militari correre freneticamente in tutte le direzioni in cerca degli uomini fuggiti. Mentre muti assistiamo a simile spettacolo, ecco farcisi innanzi l'ufficiale, di cui prima abbiamo accennato, seguito dall' interprete e alcuni militari, recanti indumenti tedeschi ritrovati nelle case dei poveri contadini (indumenti già avuti da soldati tedeschi dietro pagamento), alcune munizioni per fucile da caccia ed altri oggetti che furono pretesto per aggravare la situazione. Stretti intorno a me stavano sette o otto bambini, promossi alla prima Comunione il giorno della festa del Patrono, ai miei lati e dentro il recinto una trentina di persone tra cui cinque uomini anziani, e un giovane di diciassette anni e il rimanente, donne, ragazze, bambini. A siffatto pubblico, l'ufficiale inizia il primo discorso, in cui domanda notizia su la sorte di otto camerati tedeschi uccisi o fatti prigionieri dai partigiani, ed aggiunge, mostrando gli indumenti tedeschi, trovati nelle case, che noi eravamo consapevoli del fatto e cooperatori dei partigiani.
A queste parole comprendiamo quanto sia grave la nostra situazione; le donne piangono disperatamente, i bambini strillano mentre gli incendi delle case si espandono, il fumo annebbia l'aria che respiriamo. L'ufficiale si allontana con i soldati, dirigendo le operazioni di rastrellamento. Io, in mezzo a tanta confusione e sbigottimento, rivolgo ai miei fedeli alcune parole di conforto, nascondendo però la realtà della situazione, invitandoli ad avere fiducia nella Divina Provvidenza e nell'aiuto della Madonna. Tolgo di tasca la corona del S. Rosario. L'ufficiale capita più volte al nostro piccolo campo di concentramento, ripete frasi contro di noi e si allontana. Guardando fissamente l'interprete, mi accorgo che i suoi occhi luccicano e qualche lacrima a stento viene trattenuta. Mi stringo più attorno ai bambini, invitandoli a pregare fervorosamente Gesù che ancora custodiscono nel loro cuore innocente. Dopo circa mezz'ora, ecco ritornare il tenente tedesco con quasi tutti i militari. Leggiamo nei loro volti la delusione di non aver potuto rintracciare chi cercano e nello stesso tempo il disegno di vendicarsi su di noi. Noi trasaliamo invito i presenti a recitare l'atto di dolore e a tenerci pronti a qualsiasi conseguenza. L'ufficiale, ritornato alla solita posizione, rivolge alcune parole all’interprete il quale spiega “Il tenente dice che voi recitiate le vostre preghiere”. Noi ci guardiamo tutti in volto e comprendiamo che è arrivato l'ultimo momento della nostra vita. Recitiamo insieme l'atto di dolore ed io sto per impartire l'Assoluzione Generale. Ma la voce del tedesco ci interrompe. Ascoltiamo muti
“Abbiamo capito che voi siete religiosi, che in tale momento riponete la vostra fiducia in Dio. Non vogliate credere che noi siamo degli increduli, e che godiamo nel vedervi soffrire. Ma come ci avete trattato voi italiani? Dopo averci tradito mentre insieme combattevamo per la causa della libertà, adesso con i vostri banditi che avete alloggiato, vi accingete ad ucciderci sì proditoriamente. I nostri camerati uccisi ci gridano vendetta e noi dobbiamo vendicarli. Di quanti siete presenti, non uno dovrebbe rimanere. Ma per dimostrarvi che più di voi sentiamo il nostro dovere di cattolici, per questa volta vi rimettiamo in libertà.” A queste parole ci sentiamo ribattere il cuore, i polmoni si allargano in un respiro grande e le labbra pronunciano un sentito grazie.
“Ricordatevi”, continua l'ufficiale, “se ulteriormente si ripeteranno proditorie uccisioni di nostri camerati e voi albergherete i banditi con il capo XXX ritorneremo più numerosi, muniti di materie incendiarie e vi bruceremo le vostre case. Intanto correte alle vostre abitazioni ad estinguere gli incendi, ché molto potrete salvare.” (Pancrazi pp. 6-9)
Un’altra conseguenza degli attacchi condotti da La Teppa il 28 giugno al furgone vicino S. Egidio fu la cattura indiscriminata a Torreone di vari uomini usciti per una passeggiata sulla strada che va da Cortona a Portole. Furono portati a Pianelli alla Villa Bertocci, dove furono interrogati e rinchiusi in una lavanderia per un giorno e una notte, dopo di che la maggior parte fu rilasciata, ma tre persone furono portate a Pergo alla Villa Passerini, dove aveva la sua base il comando tedesco. Furono condannate a morte e mandate alla Feldgendarmerie di stanza a Castiglion Fiorentino. Una delle vittime si chiamava Luigi Gnerucci, un operaio con quattro bambini, un altro era Antonio Bartolini che era anche lui un manovale e il terzo si chiamava Luigi Guerri ed era un elettricista. Il giorno preciso della loro esecuzione non si conosce, ma probabilmente fu tra il 1° e il 2 luglio. I loro corpi furono trovati successivamente in una fossa durante gli ultimi giorni di agosto. Non si è mai saputo di che cosa fossero stati accusati, ma secondo una fonte che si firma solo con le iniziali R. M. nel libro La Piccola Patria
può anche darsi che il loro eccidio sia stato ordinato soltanto per rappresaglia, in seguito allo scontro avvenuto in quei giorni tra militari tedeschi e partigiani sotto Monte S. Egidio, località tuttavia assai distante dal luogo dove i tre furono arrestati. (Pancrazi p. 45)
Il 29 giugno il ‘Poggioni’ aveva ripreso le ostilità dopo la breve pausa e aveva attaccato un autocarro tedesco ferendo vari soldati. Lo slavo Stanho, nonostante fosse rimasto ferito, continuò a sparare all’autocarro fino all’esaurimento delle munizioni. Il 30 La Teppa era in azione di nuovo vicino Portole quando un autocarro fu distrutto e rimasero uccisi due soldati.
Il giorno successivo i partigiani, pensando che i tedeschi sarebbero venuti a cercare il furgone, si prepararono ad accoglierli, radunandosi sul Monte Spino da dove lanciarono tre attacchi su quei soldati che cercarono invano di risalire il fianco della collina lì vicino, e ne uccisero un numero non identificato. I partigiani non persero un solo uomo in queste schermaglie, ma un civile che tornava a casa da Cortona fu preso nel fuoco incrociato e morì proprio sulla porta di casa sua. I tedeschi ritornarono a Portole e Tornia, dove seminarono il panico tra gli abitanti prima di cercare di arrivare di nuovo alla villa, e fu allora che presero prigioniero Rapuano.Don Giovanni Salvi descrive quello che accadde a Tornia. Per fortuna circa quaranta ostaggi presi nel paese a seguito dell’attacco partigiano vicino S. Egidio furono rilasciati.
Ho appena celebrata la S. Messa parrocchiale, che un popolano mi chiama e mi addita su la località di Portole un movimento di individui ed un denso fumo che si sprigiona dal caseggiato della rivendita Sale e Tabacchi di proprietà della Famiglia Lunghi, ospite in Canonica dal momento che le bande dei partigiani avevano svolto in tale località delle operazioni d’imboscata contro convogli tedeschi. Si comprende di che si tratta i tedeschi in rappresaglia dei fatti avvenuti, incendiano ogni cosa. Avvertiamo le proprietarie ed a loro diciamo quelle poche parole di conforto che sono tanto rare in simili circostanze. Circa le ore 13, scendo giù alla piccola borgata, recandomi a pranzo dalla famiglia Anderini. Non ci siamo ancora alzati da tavola, quando irrompe in casa il piccolo seminarista della famiglia, Antonio, rimasto alla chiesa in vedetta; dall’affanno può appena articolare alcune parole “Fuggite! che ci sono tedeschi!”.
Per una uscita segreta gli uomini volano, io apro il Breviario e recitando l'Ufficio Divino m’incammino lentamente verso la Chiesa. Non ho fatto che pochi passi e mi vedo circondato da soldati tedeschi delle SS che scendendo come camosci in tutte le direzioni, hanno già stretto il paesetto in una morsa. Dico alcune parole ai due più vicini, mi danno ascolto. Prevedendo quello che era da aspettarsi, ritorno indietro deciso di condividere la sorte dei miei parrocchiani. Giù nella piazzetta centrale, sono 6 o 7 soldati che spingono donne e bambini non riusciti a fuggire, nella stanza dove prima avevo pranzato. Radunate una ventina di persone, entra un ufficiale seguito dall' interprete e da alcuni soldati. Domandano chi sia il proprietario della casa e dove si trovi XXX, uno dei familiari ritenuto come capo dei partigiani. Alle varie risposte evasive per l'inaspettata accusa, ci lasciano un momento soli, e quindi un soldato ci intima di uscire. Ad ogni angolo delle strade c’è un tedesco che ci indica dove dobbiamo dirigerci, finché ci troviamo insieme con altre persone lì radunate, sull'aia del contadino Postiferi.
Veniamo posti in fila, appoggiati ad uno stecconato che divide l'aia dalla strada; davanti a noi sono tre soldati tedeschi con mitra e pistole spianati verso di noi; un po’ a destra un fucile mitragliatore è rivolto verso il fiume, in direzione dei fuggiaschi. A destra ed a sinistra due altri soldati con relative armi sempre rivolte verso la nostra direzione. Una striscia di stoffa bianca ci indica il limite del campo di concentramento. Nel frattempo vediamo uscire in tutte le direzioni animali domestici, cacciati dalle stalle, e cortine di fumo sprigionarsi dalle case, militari correre freneticamente in tutte le direzioni in cerca degli uomini fuggiti. Mentre muti assistiamo a simile spettacolo, ecco farcisi innanzi l'ufficiale, di cui prima abbiamo accennato, seguito dall' interprete e alcuni militari, recanti indumenti tedeschi ritrovati nelle case dei poveri contadini (indumenti già avuti da soldati tedeschi dietro pagamento), alcune munizioni per fucile da caccia ed altri oggetti che furono pretesto per aggravare la situazione. Stretti intorno a me stavano sette o otto bambini, promossi alla prima Comunione il giorno della festa del Patrono, ai miei lati e dentro il recinto una trentina di persone tra cui cinque uomini anziani, e un giovane di diciassette anni e il rimanente, donne, ragazze, bambini. A siffatto pubblico, l'ufficiale inizia il primo discorso, in cui domanda notizia su la sorte di otto camerati tedeschi uccisi o fatti prigionieri dai partigiani, ed aggiunge, mostrando gli indumenti tedeschi, trovati nelle case, che noi eravamo consapevoli del fatto e cooperatori dei partigiani.
A queste parole comprendiamo quanto sia grave la nostra situazione; le donne piangono disperatamente, i bambini strillano mentre gli incendi delle case si espandono, il fumo annebbia l'aria che respiriamo. L'ufficiale si allontana con i soldati, dirigendo le operazioni di rastrellamento. Io, in mezzo a tanta confusione e sbigottimento, rivolgo ai miei fedeli alcune parole di conforto, nascondendo però la realtà della situazione, invitandoli ad avere fiducia nella Divina Provvidenza e nell'aiuto della Madonna. Tolgo di tasca la corona del S. Rosario. L'ufficiale capita più volte al nostro piccolo campo di concentramento, ripete frasi contro di noi e si allontana. Guardando fissamente l'interprete, mi accorgo che i suoi occhi luccicano e qualche lacrima a stento viene trattenuta. Mi stringo più attorno ai bambini, invitandoli a pregare fervorosamente Gesù che ancora custodiscono nel loro cuore innocente. Dopo circa mezz'ora, ecco ritornare il tenente tedesco con quasi tutti i militari. Leggiamo nei loro volti la delusione di non aver potuto rintracciare chi cercano e nello stesso tempo il disegno di vendicarsi su di noi. Noi trasaliamo invito i presenti a recitare l'atto di dolore e a tenerci pronti a qualsiasi conseguenza. L'ufficiale, ritornato alla solita posizione, rivolge alcune parole all’interprete il quale spiega “Il tenente dice che voi recitiate le vostre preghiere”. Noi ci guardiamo tutti in volto e comprendiamo che è arrivato l'ultimo momento della nostra vita. Recitiamo insieme l'atto di dolore ed io sto per impartire l'Assoluzione Generale. Ma la voce del tedesco ci interrompe. Ascoltiamo muti
“Abbiamo capito che voi siete religiosi, che in tale momento riponete la vostra fiducia in Dio. Non vogliate credere che noi siamo degli increduli, e che godiamo nel vedervi soffrire. Ma come ci avete trattato voi italiani? Dopo averci tradito mentre insieme combattevamo per la causa della libertà, adesso con i vostri banditi che avete alloggiato, vi accingete ad ucciderci sì proditoriamente. I nostri camerati uccisi ci gridano vendetta e noi dobbiamo vendicarli. Di quanti siete presenti, non uno dovrebbe rimanere. Ma per dimostrarvi che più di voi sentiamo il nostro dovere di cattolici, per questa volta vi rimettiamo in libertà.” A queste parole ci sentiamo ribattere il cuore, i polmoni si allargano in un respiro grande e le labbra pronunciano un sentito grazie.
“Ricordatevi”, continua l'ufficiale, “se ulteriormente si ripeteranno proditorie uccisioni di nostri camerati e voi albergherete i banditi con il capo XXX ritorneremo più numerosi, muniti di materie incendiarie e vi bruceremo le vostre case. Intanto correte alle vostre abitazioni ad estinguere gli incendi, ché molto potrete salvare.” (Pancrazi pp. 6-9)
Un’altra conseguenza degli attacchi condotti da La Teppa il 28 giugno al furgone vicino S. Egidio fu la cattura indiscriminata a Torreone di vari uomini usciti per una passeggiata sulla strada che va da Cortona a Portole. Furono portati a Pianelli alla Villa Bertocci, dove furono interrogati e rinchiusi in una lavanderia per un giorno e una notte, dopo di che la maggior parte fu rilasciata, ma tre persone furono portate a Pergo alla Villa Passerini, dove aveva la sua base il comando tedesco. Furono condannate a morte e mandate alla Feldgendarmerie di stanza a Castiglion Fiorentino. Una delle vittime si chiamava Luigi Gnerucci, un operaio con quattro bambini, un altro era Antonio Bartolini che era anche lui un manovale e il terzo si chiamava Luigi Guerri ed era un elettricista. Il giorno preciso della loro esecuzione non si conosce, ma probabilmente fu tra il 1° e il 2 luglio. I loro corpi furono trovati successivamente in una fossa durante gli ultimi giorni di agosto. Non si è mai saputo di che cosa fossero stati accusati, ma secondo una fonte che si firma solo con le iniziali R. M. nel libro La Piccola Patria
può anche darsi che il loro eccidio sia stato ordinato soltanto per rappresaglia, in seguito allo scontro avvenuto in quei giorni tra militari tedeschi e partigiani sotto Monte S. Egidio, località tuttavia assai distante dal luogo dove i tre furono arrestati. (Pancrazi p. 45)
Il 29 giugno il ‘Poggioni’ aveva ripreso le ostilità dopo la breve pausa e aveva attaccato un autocarro tedesco ferendo vari soldati. Lo slavo Stanho, nonostante fosse rimasto ferito, continuò a sparare all’autocarro fino all’esaurimento delle munizioni. Il 30 La Teppa era in azione di nuovo vicino Portole quando un autocarro fu distrutto e rimasero uccisi due soldati.
Favalto
Il 1° luglio un gruppo di partigiani combatté quella che Don Giovanni Basanieri chiama una ‘battaglia furiosa’ contro i tedeschi a Favalto. Un altro racconto riferisce di una battaglia avvenuta nello stesso giorno a Favalto tra i tedeschi e il 1° squadrone e il comando del 2° distaccamento. Il 30 giugno lo squadrone aveva attaccato un veicolo tedesco nell’area di Rassinata con un ufficiale, due sottufficiali e un altro militare a bordo. Gli uomini abbandonarono il veicolo e scapparono a nascondersi nei boschi. Più tardi un’auto blindata era arrivata sul luogo e anche questa era stata a sua volta attaccata e messa fuori gioco, coi due uomini a bordo feriti. Portavano importanti documenti che riguardavano le postazioni delle truppe. In seguito i tedeschi organizzarono una retata prima dell’alba e il 1° luglio sferrarono l’attacco. La battaglia che ne seguì durò tutta la giornata, dopo la quale i partigiani, che erano rimasti senza munizioni, batterono in ritirata portando con sé tutti i prigionieri del campo di Marzana. Le loro perdite ammontavano a undici uomini uccisi, quattro feriti e nove dispersi, mentre il nemico contava otto morti e nove feriti. Lo squadrone, benché privo di munizioni e intralciato dalla presenza ingombrante dei prigionieri, attraversò le linee nemiche in una marcia che durò ben tre giorni.
A nord di Cortona il 2° squadrone del distaccamento ‘Favalto’ era entrato a Castiglion Fiorentino durante la notte del 3 luglio e aveva mandato delle pattuglie incontro agli Alleati. Il giorno successivo incontrò la 2 New Zealand Division, diretta a nord per dar battaglia alle truppe appartenenti alla 15 Panzergrenadier-Division a Monte Lignano sopra Arezzo. Mentre il 2 Lothians and Border Horse della 6 Armoured Division aveva stabilito il suo comando a Castiglion Fiorentino in vista dell’attacco ad Arezzo, il 2° distaccamento ‘Favalto’ sotto Ricapito e Calò si era già spostato a nord dietro le linee per proseguire la sua attività nell’Alpe di Poti ad est di Arezzo. Nel frattempo il 2 luglio a Marzana cinque case furono date alle fiamme, e si sparse la voce che i tedeschi avessero intenzione di dare fuoco a tutto S. Egidio per rappresaglia. Benché ciò non sia accaduto, alle quattro del mattino la retroguardia tedesca, che fuggiva sotto l’avanzata alleata dopo la battaglia del Trasimeno, arrivò a Portole per il sentiero di montagna che li portò dall’altra parte nella Valle del Tevere.
A nord di Cortona il 2° squadrone del distaccamento ‘Favalto’ era entrato a Castiglion Fiorentino durante la notte del 3 luglio e aveva mandato delle pattuglie incontro agli Alleati. Il giorno successivo incontrò la 2 New Zealand Division, diretta a nord per dar battaglia alle truppe appartenenti alla 15 Panzergrenadier-Division a Monte Lignano sopra Arezzo. Mentre il 2 Lothians and Border Horse della 6 Armoured Division aveva stabilito il suo comando a Castiglion Fiorentino in vista dell’attacco ad Arezzo, il 2° distaccamento ‘Favalto’ sotto Ricapito e Calò si era già spostato a nord dietro le linee per proseguire la sua attività nell’Alpe di Poti ad est di Arezzo. Nel frattempo il 2 luglio a Marzana cinque case furono date alle fiamme, e si sparse la voce che i tedeschi avessero intenzione di dare fuoco a tutto S. Egidio per rappresaglia. Benché ciò non sia accaduto, alle quattro del mattino la retroguardia tedesca, che fuggiva sotto l’avanzata alleata dopo la battaglia del Trasimeno, arrivò a Portole per il sentiero di montagna che li portò dall’altra parte nella Valle del Tevere.
Santa Caterina
Mentre questa intensa attività si svolgeva sulle colline, il 22 giugno giù nella pianura sotto Cortona i partigiani del Gruppo Patrioti ‘Libertà’ avevano circondato i paesini di Ronzano e Fratticiola per proteggerli dai saccheggi, mentre il 24 avevano disinnescato alcune mine lungo la strada da Riccio a Terontola. Il giorno successivo avevano organizzato una diserzione in massa dei soldati italiani dalla brigata Rosa che era costretta a lavorare a fianco dei tedeschi. Il 29 giugno c’era stata una sparatoria tra alcuni soldati tedeschi della 1 Fallschirmjäger-Division e un gruppo di partigiani (molto probabilmente del Gruppo Patrioti ‘Libertà’) a San Biagio in Fasciano, durante la quale un uomo era rimasto ucciso e vari altri gravemente feriti.
Il 2 luglio, alla vigilia dell’arrivo delle truppe britanniche a Cortona, cinque persone furono massacrate a Santa Caterina in seguito alla morte di un soldato tedesco, ucciso da uno sfollato, Paolo Roggi, in collaborazione con la famiglia Roggi e forse la famiglia Domini. Il prete di Santa Caterina, Don Anselmo Zappalorti, che si stava rifugiando in un nascondiglio insieme a molti dei suoi parrocchiani, descrive quello che accadde.
Circa le 20, quando una cannonata ci cadde a pochi metri dal rifugio, tanto che il puzzo della polvere arrivò a noi, uscimmo per vedere cosa era successo, e vedemmo le case di Domini Egidio, Roggi Gaudenzio e Roggi Dante in un vortice di fuoco. Non avendo noi saputo che ivi era stato ucciso un tedesco ed un altro ferito, si pensò che causa del disastro fosse stato qualche proiettile incendiario, mentre l'incendio fu causato da tedeschi che dopo aver ucciso tutto il bestiame (31 capi) si dettero alla caccia all' uomo. Furono presi per strada ‘Castellani’ Sestilio, che tornava a casa da mietere dal suo padrone Giovanni Fernando, Roggi Primo col figlio Vasco (che poi fu risparmiato) mentre andava a prendere il pane al rifugio, Giovanni Duilio, Roggi Osvaldo e Falconi Severo, tutti e cinque barbaramente trucidati nelle vicinanze del colono Pucci Amedeo. (Pancrazi p. 115)
Si scoprì il giorno successivo che altre sette persone erano state arrestate e sequestrate, presumibilmente con l’intenzione di ucciderle, perché nella piazza davanti al posto dove erano detenute era stata piazzata una mitragliatrice; esse furono salvate dal fatto che i tedeschi si ritirarono di fronte all’avanzata alleata.
Il fatto fu indagato dai carabinieri che dicevano chiaramente che la rappresaglia fu la risposta all'uccisione di un soldato tedesco da parte dei partigiani.
Il 2 luglio, alla vigilia dell’arrivo delle truppe britanniche a Cortona, cinque persone furono massacrate a Santa Caterina in seguito alla morte di un soldato tedesco, ucciso da uno sfollato, Paolo Roggi, in collaborazione con la famiglia Roggi e forse la famiglia Domini. Il prete di Santa Caterina, Don Anselmo Zappalorti, che si stava rifugiando in un nascondiglio insieme a molti dei suoi parrocchiani, descrive quello che accadde.
Circa le 20, quando una cannonata ci cadde a pochi metri dal rifugio, tanto che il puzzo della polvere arrivò a noi, uscimmo per vedere cosa era successo, e vedemmo le case di Domini Egidio, Roggi Gaudenzio e Roggi Dante in un vortice di fuoco. Non avendo noi saputo che ivi era stato ucciso un tedesco ed un altro ferito, si pensò che causa del disastro fosse stato qualche proiettile incendiario, mentre l'incendio fu causato da tedeschi che dopo aver ucciso tutto il bestiame (31 capi) si dettero alla caccia all' uomo. Furono presi per strada ‘Castellani’ Sestilio, che tornava a casa da mietere dal suo padrone Giovanni Fernando, Roggi Primo col figlio Vasco (che poi fu risparmiato) mentre andava a prendere il pane al rifugio, Giovanni Duilio, Roggi Osvaldo e Falconi Severo, tutti e cinque barbaramente trucidati nelle vicinanze del colono Pucci Amedeo. (Pancrazi p. 115)
Si scoprì il giorno successivo che altre sette persone erano state arrestate e sequestrate, presumibilmente con l’intenzione di ucciderle, perché nella piazza davanti al posto dove erano detenute era stata piazzata una mitragliatrice; esse furono salvate dal fatto che i tedeschi si ritirarono di fronte all’avanzata alleata.
Il fatto fu indagato dai carabinieri che dicevano chiaramente che la rappresaglia fu la risposta all'uccisione di un soldato tedesco da parte dei partigiani.
Dal documento no. 33 spedito dalla Legione Territoriale dei Carabinieri Reali -Firenze (Ufficio Servizio) al Comando Centrale Carabinieri Reali, ricevuta in data 29 Aprile 1945. Oggetto: Vessazioni, delitti, rappresaglie e fucilazioni commesse dai tedeschi in danno della popolazione civile (Gruppo di Arezzo)
L'arrivo delle truppe britanniche
Nella mattinata del 3 luglio le truppe dello A Squadron, 56 Reconnaissance Regiment (il reggimento di ricognizione della 78 ‘Battleaxe’ Division) entrarono a Cortona e sul loro diario si legge che la città risultava libera dal nemico.
Quella notte furono sostituite dalla 7 Rifle Brigade della 6 British Armoured Division e il giorno successivo il ‘Poggioni’ consegnò gli undici prigionieri che teneva sotto la sua custodia. I partigiani del Gruppo Patrioti ‘Libertà’, dopo aver disseminato di mine il ponte S. Pietro, Cortona controllarono la retroguardia tedesca finché non arrivarono i britannici a Fratticiola, ed in seguito entrarono in città. I partigiani del 1° squadrone del 2° distaccamento ‘Favalto’, guidato da Angelo Ricapito e Eugenio Calò, consegnarono il gruppo di prigionieri che avevano portato dal campo di concentramento di Marzana. Il contributo dei partigiani de La Teppa fu un gruppo di tedeschi che avevano catturato insieme ad una radio-trasmittente e 150 collaboratori. Un cortonese, Cesare Rachini, scrisse nel libro di Pancrazi che "In quel giorno...riuscii a portare sani e salvi in città 33 internati ebrei e 22 tra ufficiali e soldati ex prigionieri di guerra." (Pancrazi p. 60) Sembrava che facesse parte della banda Partigiani di Cantalena.
Il giorno successivo, il 5 luglio, la 7 Rifle Brigade inviò una pattuglia in perlustrazione a S. Egidio per stabilire se fosse occupato, ma i nemici si erano ritirati a nord verso Arezzo. Tuttavia controllavano ancora le colline che si affacciano sulla Valle del Tevere dove il ‘Morra’, il 3° squadrone del 2° distaccamento ‘Favalto’, era stato in attività durante il mese di giugno. Fu in questa area che il 23 a Molin dei Ronti il ‘Morra’ aveva attaccato un’auto e un camion uccidendo cinque uomini in tutto e ferendone altri quattro. Il 9 luglio lo squadrone si aggregò alla 1/2 Ghurkas del 4 Indian Division, (che in quel periodo operavano con la 10 Indian Division), e facendo da guida li aiutò a spazzare via il comando tedesco a Ghironzo. Due giorni dopo lo stesso gruppo partecipò alla liberazione del paese di Morra.
Quella notte furono sostituite dalla 7 Rifle Brigade della 6 British Armoured Division e il giorno successivo il ‘Poggioni’ consegnò gli undici prigionieri che teneva sotto la sua custodia. I partigiani del Gruppo Patrioti ‘Libertà’, dopo aver disseminato di mine il ponte S. Pietro, Cortona controllarono la retroguardia tedesca finché non arrivarono i britannici a Fratticiola, ed in seguito entrarono in città. I partigiani del 1° squadrone del 2° distaccamento ‘Favalto’, guidato da Angelo Ricapito e Eugenio Calò, consegnarono il gruppo di prigionieri che avevano portato dal campo di concentramento di Marzana. Il contributo dei partigiani de La Teppa fu un gruppo di tedeschi che avevano catturato insieme ad una radio-trasmittente e 150 collaboratori. Un cortonese, Cesare Rachini, scrisse nel libro di Pancrazi che "In quel giorno...riuscii a portare sani e salvi in città 33 internati ebrei e 22 tra ufficiali e soldati ex prigionieri di guerra." (Pancrazi p. 60) Sembrava che facesse parte della banda Partigiani di Cantalena.
Il giorno successivo, il 5 luglio, la 7 Rifle Brigade inviò una pattuglia in perlustrazione a S. Egidio per stabilire se fosse occupato, ma i nemici si erano ritirati a nord verso Arezzo. Tuttavia controllavano ancora le colline che si affacciano sulla Valle del Tevere dove il ‘Morra’, il 3° squadrone del 2° distaccamento ‘Favalto’, era stato in attività durante il mese di giugno. Fu in questa area che il 23 a Molin dei Ronti il ‘Morra’ aveva attaccato un’auto e un camion uccidendo cinque uomini in tutto e ferendone altri quattro. Il 9 luglio lo squadrone si aggregò alla 1/2 Ghurkas del 4 Indian Division, (che in quel periodo operavano con la 10 Indian Division), e facendo da guida li aiutò a spazzare via il comando tedesco a Ghironzo. Due giorni dopo lo stesso gruppo partecipò alla liberazione del paese di Morra.