All'est dell'Arno
LA FAMIGLIA BUZZINI DI PIETRAMALA
L’Alpe di Catenaia e l’Alpe di Poti, le due catene montuose che si estendono da Chiusi della Verna a nord fino alla strada che collega Arezzo a San Sepolcro a sud, furono la scena delle operazioni del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ della 23ª Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’. Le sue attività si svolsero lungo la Valle dell’Arno e dalla zona pedemontana dell’Alpe di Catenaia da Valenzano, Vogognano e Falciano oltre Subbiano e Ponte della Chiassa fino ad Agazzi ad ovest di Arezzo. Dall’inizio di luglio, in seguito alla liberazione di Cortona, fu affiancato dai primi due squadroni del 2° distaccamento ‘Favalto’ nell’Alpe di Poti. Prima di spostarsi all’Alpe di Poti il 1° squadrone del ‘Favalto’ operava nella zona di Palazzo del Pero dalla sua base di Rassinata.
Una delle prime atrocità commesse nell’area delle operazioni del ‘Sante Tani’ avvenne il 25 maggio, ma non può essere considerata una risposta alle attività del distaccamento. La Guardia Repubblicana a Chiaveretto, lavorando a fianco del 1/Feldgendarmerie-Abteilung 692 del Comando Supremo della 10 Armee (AOK) alla ricerca di due piloti che erano stati avvistati quando si erano lanciati col paracadute dal loro velivolo che era stato colpito, si imbatterono in due uomini in un campo, intimarono loro l’alt, li portarono a duecento metri da dove li avevano incontrati e li uccisero a colpi di arma da fuoco. Uno di loro si era dato alla macchia per evitare il reclutamento nell’esercito repubblicano. La prima vera rappresaglia avvenne a Chiusi della Verna il 14 giugno. Quel pomeriggio c’era stato uno scontro lungo la strada che porta a Melora tra un gruppo di partigiani e un gruppo di truppe tedesche agli ordini del Comando Supremo, in cui era rimasto ucciso un soldato tedesco. Un’ora dopo tornarono sul luogo circa quindici dei suoi commilitoni e, sparando all’impazzata, sfogarono la loro rabbia contro chiunque incontrassero per le strade del paese. Fortunatamente la maggior parte della gente, temendo la loro furia, era riuscita a scappare per la campagna, ma il prete insieme ad una monaca, che erano corsi entrambi a soccorrere i feriti, furono tra le dieci persone che persero la vita.
Una settimana dopo a Vogognano un partigiano morì e un altro rimase ferito in un attacco al transito tedesco, mentre allo stesso tempo sull’Alpe di Catenaia i partigiani uccisero tre membri della GNR. Il 21 un convoglio che viaggiava lungo la strada per Chiaveretto fu oggetto di un attacco massiccio durante il quale i partigiani del 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ della 23° ‘Pio Borri’ uccisero sei tedeschi. Venticinque soldati rimasero feriti, furono fatti quattro prigionieri e furono distrutti tre veicoli, mentre le perdite dei partigiani ammontarono ad un morto e un ferito. In varie occasioni i primi due squadroni del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ operavano nella stessa zona, come accadde il 22 giugno a S. Giuseppe Subbiano, quando il 1° squadrone catturò quattro tedeschi, mentre i loro compagni del 2° squadrone attaccarono due autocarri distruggendone uno, uccidendo tre soldati, ferendone un altro e facendo prigionieri due uomini. La morte di altri tre tedeschi e la cattura di due prigionieri a Monte Giovi da parte del ‘Volante’ del ‘Sante Tani’ lo stesso giorno provocò rappresaglie immediate nel paese, laddove in risposta a questi fatti furono uccisi sei civili.
Nel giro dei pochi giorni che seguirono, ci fu una intensa attività da parte del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ nell’area tra Molino di Falciano e Chiassa Superiore, laddove gli attacchi ai convogli tedeschi della 334 Infanterie-Division e le perlustrazioni dettero come risultato ventiquattro morti, otto feriti, la cattura di nove prigionieri, compresi un ufficiale e un sottufficiale, la distruzione di sei autocarri e la cattura di due cavalli e un mulo, insieme all’acquisizione di una notevole quantità di armi. Quando il 26 a La Speranza Oberst Baron von Gablenz, comandante del Korük 594 fu preso prigioniero in seguito ad un attacco alla sua macchina in cui l’autista fu ferito, più di trecento persone furono prese in ostaggio e rinchiuse nella chiesa di Chiassa.
Il Diario di Guerra tedesco contiene un rapporto dettagliato di questo episodio e menziona anche un attacco che era avvenuto due giorni prima.
II pomeriggio del 26.06 Oberst von Gablenz fu aggredito e portato via dalla banda sulla strada 1953- 1957 Arezzo Chiaveretto. Si è dato l'ordine di raccogliere la popolazione che si trova lungo la strada 1951-7451 (La Chiassa - Borgo a Giovi - San Lorenzo) e di fucilare l'intera popolazione maschile nel caso in cui Oberst von Gablenz e il suo autista non vengano rilasciati vivi entro la mattina del 28.06. Nella stessa zona l'Oberst Müller, con della Flak-Brigade 22 è stato preso e fucilato dai banditi. Le contromisure dell'Armata contro l'imperversare delle bande sono state avviate. Tramite lo Stabs. Offz. Für Propaganda sono stati pubblicati dei volantini per la popolazione in cui si comunica la pena di morte per qualsivoglia attività di bande e di sostegno.
Questa non fu l’unica misura presa al riguardo. Il Feldmarschall Kesselring fu costretto a mandare altre truppe nella Provincia di Arezzo dalla linea del fronte per arginare il numero crescente di attacchi partigiani ai convogli. Il 26 giugno il 11/3 Brandenburg Regiment ebbe ordine di spostarsi nel Casentino dalla Valle del Tevere, dove si trovava a difesa del fianco sinistro della 305 Infanterie-Division, e vi stabilì il suo comando a Castel San Niccolò, vicino Poppi. Una settimana prima, la Polizei-Führer-West Emilien (3/Einsatzkommando-Bürger) della Waffen SS si era spostata a Bibbiena.
I diari continuano così:
Risultato attuale: fermate in chiesa di La Chiassa circa trecentoventi persone tra cui centocinquanta uomini; fermate a Ponte alla Piera circa duecento quaranta, tra cui cento uomini...Si tratta qui di un’azione in stridente contrasto con il diritto dei popoli. Sulla base delle norme del diritto dei popoli si danno alla popolazione suddetta quarantotto ore di tempo per riportare indietro l'ufficiale e il sottufficiale catturati.
Il giorno in cui Oberst von Gablenz e il suo autista erano caduti nelle mani dei partigiani, i tedeschi ebbero la fortuna sfacciata di catturare un partigiano appartenente al 1° distaccamento ‘Sante Tani’, che giustiziarono sommariamente insieme a quattro suoi compagni catturati più tardi lo stesso giorno durante un’offensiva. Il Diario di Guerra descrive ciò che accadde:
26.06 sulla Giove - Anghiari, località Chiaveretto e Montauto verso le 6:00 circa gli occupanti di una delle postazioni hanno avvisato due o tre banditi che stavano costruendo una postazione...Per ragioni sconosciute hanno abbandonato improvvisamente il posto lasciandovi una bomba a mano e un passamontagna...Uno dei banditi, tornato indietro evidentemente per riprendersi questi oggetti, è stato catturato. (Gli sono stati trovati addosso tre caricatori con munizioni italiane e altro materiale probante). Verso le 13 circa mi è giunta comunicazione che in un altro posto, distante circa tre chilometri, si era sparato su un autoveicolo...Un po’ di tempo dopo si è riusciti ancora a catturare quattro persone sui vent’ anni. Si trovavano in loro possesso molte munizioni italiane, bombe a mano, un fucile e altri oggetti da equipaggiamento. Queste quattro persone e il bandito catturato la mattina sono stati impiccati ad una forca costruita sul posto.
Lungo la strada vicino la Villa Lumbroso a La Speranza c’è un monumento a queste cinque vittime, una delle quali aveva diciotto anni, due ne avevano diciannove, una venti – tutte provenienti da Monterchi vicino San Sepolcro – e l’ultima, di ventidue anni, originario di Giovi. Il rapporto raggelante che segue dice che ci furono sei vittime, non cinque.
Una pattuglia tedesca, scorrazzando per saccheggiare le case e le stalle dei contadini nei dintorni di Scille, si era imbattuta, per caso, in alcuni partigiani sulla via che, dalla Speranza, sale al castello di Montauto. La mattina seguente i partigiani inviarono un giovane contadino in ricognizione verso la Speranza per accertarsi se vi fossero tornati i razziatori. Sfortuna volle che il giovane incontrasse per via un picchetto di tedeschi, che, riconosciutolo per uno di quelli che avevano preso parte allo scontro, lo arrestarono, lo percossero a sangue, lo trascinarono alla Speranza. Giunti alla villa di Giacomo Lumbroso, legatelo mani e piedi lo appoggiarono al muro, esposto a pieno sole, sotto il riverbero infuocato della canicola. Quando chiedeva un sorso d'acqua, gli rispondevano con lazzi atroci, lo schernivano, lo battevano, dopo aver minacciato di morte chiunque dei presenti in fattoria l’avesse soccorso. Nel pomeriggio furono presi altri cinque giovani, legati anch’essi, condotti alla Speranza ed ivi allineati al muro accanto alla prima vittima. Abbattuto un abete, lo passarono fra due colonnette di mattoni alzate sul bordo della via, vi disposero i lacci. Alzata e provata la forca, entrarono in fattoria, si fecero consegnare tre fiaschi di vino, ordinarono cibi caldi per il pasto della sera. Sigaretta in bocca, tornarono al patibolo, cominciarono l'impiccagione, uno alla volta alternando alla bisogna con bevute di vino e risate a crepapelle. A colpi di rivoltella furono finiti i più duri a morire, alternandosi gli sparatori nella gara atroce. Appesero sulla testa della forca un cartello con questa scritta “Partigiani puniti, camerati sparate.” Da quella sera quanti tedeschi passavano fermavano il veicolo, leggevano la scritta e ubbidivano scaricavano le pistole sui cadaveri. Era stato impedito anche ai parenti di rimuovere e dare sepoltura alle salme, che rimasero appese alla forca per oltre venti giorni. (Curina 1957 pp. 486-7)
Tivo, il comandante partigiano, indubbiamente sconvolto da quello che era successo e terrorizzato da ciò che sarebbe potuto accadere agli ostaggi detenuti a Chiassa ed a Ponte della Piera, inviò questa lettera al comando tedesco, che la inserì nel Diario di Guerra:
I gruppi combattenti dell'esercito di liberazione italiano hanno rispettato finora tutte le regole stabilite dal diritto internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra. Entro i limiti in cui però vengono prese dal suddetto comando quelle misure che sono state minacciate, che sono contro il diritto internazionale ed i diritti umani, fucileremo, a buon diritto, come rappresaglie, tutti i prigionieri di guerra che si trovano attualmente in mano nostra e tutti i prigionieri che faremo in futuro. Faremo venire al vostro comando la lista dei prigionieri fucilati.
La risposta tedesca a quella lettera fu la seguente
I banditi della zona di Montauto hanno reagito a nostre rappresaglie e minacciano la fucilazione di tutti i prigionieri tedeschi nel caso in cui esse vengano messe in atto. Il numero totale delle persone fermate viene corretto a centoventinove uomini e ottanta donne. Le donne malate e i bambini sono stati rilasciati. La località Ponte alla Piera è stata trovata abbandonata dalla popolazione. Sono in atto perlustrazioni per valutare la possibilità di un’azione contro la sede delle bande possibilmente cinque-sei chilometri da La Chiassa.
Il giorno 29 il diario riporta quanto segue
Oberst von Gablenz è stato rilasciato a seguito delle nostre rappresaglie. (KTB 864)
Non è chiaro a quale rappresaglia si riferisca questo commento; tutti gli ostaggi che venivano trattenuti furono lasciati andare dopo che i due tedeschi furono rilasciati.
Da altre parti, tuttavia, le attività dei partigiani continuarono freneticamente. Il 28 giugno mentre gli ostaggi venivano trattenuti sotto la minaccia di morte, un pesante attacco sulla strada Rassina-Chiusi della Verna portò alla distruzione di cinque autocarri, la morte di tre soldati e di un partigiano, il ferimento di diciotto uomini e la cattura di quattro prigionieri. I tre giorni successivi videro due imboscate a Molin del Buco, vicino Chiassa, in cui i partigiani ebbero la peggio con due morti, ed un attacco partigiano ad un transito a Marcena in cui lanciarono bombe incendiarie sui veicoli di passaggio, col risultato di scatenare il fuoco di ritorno dei tedeschi.
Nella zona pedecollinare a sud e ad ovest di Arezzo era in azione il 3° distaccamento della 24ª Brigata Garibaldi ‘Bande Esterne’; il 28 giugno a Il Matto attaccarono una pattuglia, uccidendo tre uomini che cercavano di fuggire, e dettero seguito all’azione vicino Ca’ di Lando il 3 luglio con un attacco su un gruppo isolato della retroguardia tedesca in ritirata dalla Linea Albert, uccidendo e ferendo vari uomini e facendone due prigionieri. Il 4° squadrone ‘Volante’ del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ fu coinvolto in una schermaglia ad Agazzi il 4 luglio, in cui un partigiano fu ucciso; il giorno dopo, a una distanza di quattro chilometri, nella fattoria di Molinaccio quindici persone, compresi alcuni sfortunati sfollati della città di Arezzo, furono passati per le armi in rappresaglia da alcuni membri della Flak-Division 25; proprio quel giorno le truppe della 2 New Zealand Division erano giunte ad Olmo, solo a pochi chilometri di distanza.
Il 1° squadrone dello stesso distaccamento era stato molto attivo nelle colline tra Castiglion Fiorentino e San Sepolcro durante il giugno del 1944. Il 22 a Palazzo del Pero avevano ucciso due motociclisti che appartenevano al 1 Feldgendarmerie-Abteilung 692, e distrutto le loro macchine ed il 24 lo squadrone ‘Volante’ aveva catturato tre tedeschi sorpresi a razziare. Più tardi quello stesso giorno dieci sfortunati braccianti, mentre raccoglievano il grano in una fattoria sulla strada Arezzo-San Sepolcro a Molino Nuovo, erano stati catturati dai tedeschi, messi in fila lungo la strada e abbattuti a colpi di mitraglia. Il Comandante tedesco sull’argomento scrive
Sono convinto della loro innocenza, come pure sono convinto che noi abbiamo perduto la guerra; però debbo farli fucilare egualmente. (Tognarini p. 18)
Un rapporto riferisce che il massacro era stato perpetrato senza alcun motivo ma all’osservatore scevro di pregiudizi sembrerebbe piuttosto che sia stata applicata la regola del ‘dieci contro uno’ anche se più moderatamente che in altre occasioni. Questa rappresaglia comunque non fermò l’attività dello squadrone, il quale il giorno successivo si impegnò in tre scontri coi tedeschi durante i quali furono uccise un numero imprecisato di persone. A seguito di questi attacchi due giovanotti furono catturati e impiccati nelle vicinanze di Monterchi con l’accusa di essere partigiani.
Mentre durante la notte del 2 luglio i partigiani del 2° squadrone del ‘Favalto’ entrarono segretamente a Castiglion Fiorentino per aspettare l’arrivo della 2 New Zealand Division che era alla testa della 6 Armoured Division, la retroguardia tedesca fece irruzione nella casa del prete a Palazzo del Pero e profanò il sacramento. Il 10 si ebbe un massacro di tredici persone alla vicina Badicroce descritto come segue dai Carabinieri
Le SS occupano (sic) la fattoria, sede di rifugio di alcuni sfollati, e vennero (sic) trucidate tredici persone. Una giovane sposa fu presa dai tedeschi. Dopo due giorni fu trovata...con segni evidenti di violenza carnale, con la testa straziata. Un vecchio di settantasei anni, che non poteva camminare, fu fatto ruzzolare da un ciglione e lì fucilato. (Curina 1957 pp. 503-4)
I Carabinieri non spiegano il motivo della strage ma sul sito web dell’Associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri Caduti per la Libertà della Patria si legge il seguente
La Fattoria di Badicroce viene occupata dai nazisti, malgrado la presenza di un considerevole numero di sfollati. Il proprietario dott. Alberto Lisi, inviso ai nazisti è costretto alla fuga. Purtroppo uno dei germanici occupanti viene ucciso ed il comando nazista ordina la rappresaglia: tredici innocenti vengono trucidati. (www.anfim.it)
Il giorno precedente a La Speranza il comando del 2° distaccamento ‘Favalto’ della ‘Pio Borri’, essendosi spostato a nord con la liberazione di Cortona da parte del 56 Reconnaissance Regiment, era stato coinvolto in una battaglia con le truppe tedesche durante la quale sei soldati rimasero uccisi. Questo segnò l’inizio dell’intensificarsi dell’attività partigiana tra La Speranza e Poti, che ebbe tragiche conseguenze per gli abitanti dei tre villaggi di Pietramala, Molin dei Falchi e San Severo Pomaio, ma anche per i partigiani stessi. Successivamente, il 13 luglio vi fu un attacco sferrato ad un convoglio tedesco a Camagiura da parte del 2° squadrone del 2° distaccamento ‘Favalto’ nel quale rimasero uccisi quattro partigiani.
Lo stesso giorno il 4° squadrone del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ aveva sferrato un attacco ai tedeschi a Molinelli. Lo scopo di tutta questa attività era di prendere il Passo dello Scopetone, superato il quale i partigiani dovevano scendere ad Arezzo. Il commento completamente inadeguato dei partigiani su quello che accadde a San Severo Pomaio è che
Il ripiegamento, avvenuto celermente nella zona di S. Severo, provocava la reazione dei tedeschi sulla popolazione di quella località, dato che essi non erano riusciti ad attuare i loro piani per l'agganciamento dei nostri reparti al fine di annientarli. (Casella p. 235)
Quattordici civili, tutti uomini, pagarono con la loro vita.
Una delle prime atrocità commesse nell’area delle operazioni del ‘Sante Tani’ avvenne il 25 maggio, ma non può essere considerata una risposta alle attività del distaccamento. La Guardia Repubblicana a Chiaveretto, lavorando a fianco del 1/Feldgendarmerie-Abteilung 692 del Comando Supremo della 10 Armee (AOK) alla ricerca di due piloti che erano stati avvistati quando si erano lanciati col paracadute dal loro velivolo che era stato colpito, si imbatterono in due uomini in un campo, intimarono loro l’alt, li portarono a duecento metri da dove li avevano incontrati e li uccisero a colpi di arma da fuoco. Uno di loro si era dato alla macchia per evitare il reclutamento nell’esercito repubblicano. La prima vera rappresaglia avvenne a Chiusi della Verna il 14 giugno. Quel pomeriggio c’era stato uno scontro lungo la strada che porta a Melora tra un gruppo di partigiani e un gruppo di truppe tedesche agli ordini del Comando Supremo, in cui era rimasto ucciso un soldato tedesco. Un’ora dopo tornarono sul luogo circa quindici dei suoi commilitoni e, sparando all’impazzata, sfogarono la loro rabbia contro chiunque incontrassero per le strade del paese. Fortunatamente la maggior parte della gente, temendo la loro furia, era riuscita a scappare per la campagna, ma il prete insieme ad una monaca, che erano corsi entrambi a soccorrere i feriti, furono tra le dieci persone che persero la vita.
Una settimana dopo a Vogognano un partigiano morì e un altro rimase ferito in un attacco al transito tedesco, mentre allo stesso tempo sull’Alpe di Catenaia i partigiani uccisero tre membri della GNR. Il 21 un convoglio che viaggiava lungo la strada per Chiaveretto fu oggetto di un attacco massiccio durante il quale i partigiani del 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ della 23° ‘Pio Borri’ uccisero sei tedeschi. Venticinque soldati rimasero feriti, furono fatti quattro prigionieri e furono distrutti tre veicoli, mentre le perdite dei partigiani ammontarono ad un morto e un ferito. In varie occasioni i primi due squadroni del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ operavano nella stessa zona, come accadde il 22 giugno a S. Giuseppe Subbiano, quando il 1° squadrone catturò quattro tedeschi, mentre i loro compagni del 2° squadrone attaccarono due autocarri distruggendone uno, uccidendo tre soldati, ferendone un altro e facendo prigionieri due uomini. La morte di altri tre tedeschi e la cattura di due prigionieri a Monte Giovi da parte del ‘Volante’ del ‘Sante Tani’ lo stesso giorno provocò rappresaglie immediate nel paese, laddove in risposta a questi fatti furono uccisi sei civili.
Nel giro dei pochi giorni che seguirono, ci fu una intensa attività da parte del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ nell’area tra Molino di Falciano e Chiassa Superiore, laddove gli attacchi ai convogli tedeschi della 334 Infanterie-Division e le perlustrazioni dettero come risultato ventiquattro morti, otto feriti, la cattura di nove prigionieri, compresi un ufficiale e un sottufficiale, la distruzione di sei autocarri e la cattura di due cavalli e un mulo, insieme all’acquisizione di una notevole quantità di armi. Quando il 26 a La Speranza Oberst Baron von Gablenz, comandante del Korük 594 fu preso prigioniero in seguito ad un attacco alla sua macchina in cui l’autista fu ferito, più di trecento persone furono prese in ostaggio e rinchiuse nella chiesa di Chiassa.
Il Diario di Guerra tedesco contiene un rapporto dettagliato di questo episodio e menziona anche un attacco che era avvenuto due giorni prima.
II pomeriggio del 26.06 Oberst von Gablenz fu aggredito e portato via dalla banda sulla strada 1953- 1957 Arezzo Chiaveretto. Si è dato l'ordine di raccogliere la popolazione che si trova lungo la strada 1951-7451 (La Chiassa - Borgo a Giovi - San Lorenzo) e di fucilare l'intera popolazione maschile nel caso in cui Oberst von Gablenz e il suo autista non vengano rilasciati vivi entro la mattina del 28.06. Nella stessa zona l'Oberst Müller, con della Flak-Brigade 22 è stato preso e fucilato dai banditi. Le contromisure dell'Armata contro l'imperversare delle bande sono state avviate. Tramite lo Stabs. Offz. Für Propaganda sono stati pubblicati dei volantini per la popolazione in cui si comunica la pena di morte per qualsivoglia attività di bande e di sostegno.
Questa non fu l’unica misura presa al riguardo. Il Feldmarschall Kesselring fu costretto a mandare altre truppe nella Provincia di Arezzo dalla linea del fronte per arginare il numero crescente di attacchi partigiani ai convogli. Il 26 giugno il 11/3 Brandenburg Regiment ebbe ordine di spostarsi nel Casentino dalla Valle del Tevere, dove si trovava a difesa del fianco sinistro della 305 Infanterie-Division, e vi stabilì il suo comando a Castel San Niccolò, vicino Poppi. Una settimana prima, la Polizei-Führer-West Emilien (3/Einsatzkommando-Bürger) della Waffen SS si era spostata a Bibbiena.
I diari continuano così:
Risultato attuale: fermate in chiesa di La Chiassa circa trecentoventi persone tra cui centocinquanta uomini; fermate a Ponte alla Piera circa duecento quaranta, tra cui cento uomini...Si tratta qui di un’azione in stridente contrasto con il diritto dei popoli. Sulla base delle norme del diritto dei popoli si danno alla popolazione suddetta quarantotto ore di tempo per riportare indietro l'ufficiale e il sottufficiale catturati.
Il giorno in cui Oberst von Gablenz e il suo autista erano caduti nelle mani dei partigiani, i tedeschi ebbero la fortuna sfacciata di catturare un partigiano appartenente al 1° distaccamento ‘Sante Tani’, che giustiziarono sommariamente insieme a quattro suoi compagni catturati più tardi lo stesso giorno durante un’offensiva. Il Diario di Guerra descrive ciò che accadde:
26.06 sulla Giove - Anghiari, località Chiaveretto e Montauto verso le 6:00 circa gli occupanti di una delle postazioni hanno avvisato due o tre banditi che stavano costruendo una postazione...Per ragioni sconosciute hanno abbandonato improvvisamente il posto lasciandovi una bomba a mano e un passamontagna...Uno dei banditi, tornato indietro evidentemente per riprendersi questi oggetti, è stato catturato. (Gli sono stati trovati addosso tre caricatori con munizioni italiane e altro materiale probante). Verso le 13 circa mi è giunta comunicazione che in un altro posto, distante circa tre chilometri, si era sparato su un autoveicolo...Un po’ di tempo dopo si è riusciti ancora a catturare quattro persone sui vent’ anni. Si trovavano in loro possesso molte munizioni italiane, bombe a mano, un fucile e altri oggetti da equipaggiamento. Queste quattro persone e il bandito catturato la mattina sono stati impiccati ad una forca costruita sul posto.
Lungo la strada vicino la Villa Lumbroso a La Speranza c’è un monumento a queste cinque vittime, una delle quali aveva diciotto anni, due ne avevano diciannove, una venti – tutte provenienti da Monterchi vicino San Sepolcro – e l’ultima, di ventidue anni, originario di Giovi. Il rapporto raggelante che segue dice che ci furono sei vittime, non cinque.
Una pattuglia tedesca, scorrazzando per saccheggiare le case e le stalle dei contadini nei dintorni di Scille, si era imbattuta, per caso, in alcuni partigiani sulla via che, dalla Speranza, sale al castello di Montauto. La mattina seguente i partigiani inviarono un giovane contadino in ricognizione verso la Speranza per accertarsi se vi fossero tornati i razziatori. Sfortuna volle che il giovane incontrasse per via un picchetto di tedeschi, che, riconosciutolo per uno di quelli che avevano preso parte allo scontro, lo arrestarono, lo percossero a sangue, lo trascinarono alla Speranza. Giunti alla villa di Giacomo Lumbroso, legatelo mani e piedi lo appoggiarono al muro, esposto a pieno sole, sotto il riverbero infuocato della canicola. Quando chiedeva un sorso d'acqua, gli rispondevano con lazzi atroci, lo schernivano, lo battevano, dopo aver minacciato di morte chiunque dei presenti in fattoria l’avesse soccorso. Nel pomeriggio furono presi altri cinque giovani, legati anch’essi, condotti alla Speranza ed ivi allineati al muro accanto alla prima vittima. Abbattuto un abete, lo passarono fra due colonnette di mattoni alzate sul bordo della via, vi disposero i lacci. Alzata e provata la forca, entrarono in fattoria, si fecero consegnare tre fiaschi di vino, ordinarono cibi caldi per il pasto della sera. Sigaretta in bocca, tornarono al patibolo, cominciarono l'impiccagione, uno alla volta alternando alla bisogna con bevute di vino e risate a crepapelle. A colpi di rivoltella furono finiti i più duri a morire, alternandosi gli sparatori nella gara atroce. Appesero sulla testa della forca un cartello con questa scritta “Partigiani puniti, camerati sparate.” Da quella sera quanti tedeschi passavano fermavano il veicolo, leggevano la scritta e ubbidivano scaricavano le pistole sui cadaveri. Era stato impedito anche ai parenti di rimuovere e dare sepoltura alle salme, che rimasero appese alla forca per oltre venti giorni. (Curina 1957 pp. 486-7)
Tivo, il comandante partigiano, indubbiamente sconvolto da quello che era successo e terrorizzato da ciò che sarebbe potuto accadere agli ostaggi detenuti a Chiassa ed a Ponte della Piera, inviò questa lettera al comando tedesco, che la inserì nel Diario di Guerra:
I gruppi combattenti dell'esercito di liberazione italiano hanno rispettato finora tutte le regole stabilite dal diritto internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra. Entro i limiti in cui però vengono prese dal suddetto comando quelle misure che sono state minacciate, che sono contro il diritto internazionale ed i diritti umani, fucileremo, a buon diritto, come rappresaglie, tutti i prigionieri di guerra che si trovano attualmente in mano nostra e tutti i prigionieri che faremo in futuro. Faremo venire al vostro comando la lista dei prigionieri fucilati.
La risposta tedesca a quella lettera fu la seguente
I banditi della zona di Montauto hanno reagito a nostre rappresaglie e minacciano la fucilazione di tutti i prigionieri tedeschi nel caso in cui esse vengano messe in atto. Il numero totale delle persone fermate viene corretto a centoventinove uomini e ottanta donne. Le donne malate e i bambini sono stati rilasciati. La località Ponte alla Piera è stata trovata abbandonata dalla popolazione. Sono in atto perlustrazioni per valutare la possibilità di un’azione contro la sede delle bande possibilmente cinque-sei chilometri da La Chiassa.
Il giorno 29 il diario riporta quanto segue
Oberst von Gablenz è stato rilasciato a seguito delle nostre rappresaglie. (KTB 864)
Non è chiaro a quale rappresaglia si riferisca questo commento; tutti gli ostaggi che venivano trattenuti furono lasciati andare dopo che i due tedeschi furono rilasciati.
Da altre parti, tuttavia, le attività dei partigiani continuarono freneticamente. Il 28 giugno mentre gli ostaggi venivano trattenuti sotto la minaccia di morte, un pesante attacco sulla strada Rassina-Chiusi della Verna portò alla distruzione di cinque autocarri, la morte di tre soldati e di un partigiano, il ferimento di diciotto uomini e la cattura di quattro prigionieri. I tre giorni successivi videro due imboscate a Molin del Buco, vicino Chiassa, in cui i partigiani ebbero la peggio con due morti, ed un attacco partigiano ad un transito a Marcena in cui lanciarono bombe incendiarie sui veicoli di passaggio, col risultato di scatenare il fuoco di ritorno dei tedeschi.
Nella zona pedecollinare a sud e ad ovest di Arezzo era in azione il 3° distaccamento della 24ª Brigata Garibaldi ‘Bande Esterne’; il 28 giugno a Il Matto attaccarono una pattuglia, uccidendo tre uomini che cercavano di fuggire, e dettero seguito all’azione vicino Ca’ di Lando il 3 luglio con un attacco su un gruppo isolato della retroguardia tedesca in ritirata dalla Linea Albert, uccidendo e ferendo vari uomini e facendone due prigionieri. Il 4° squadrone ‘Volante’ del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ fu coinvolto in una schermaglia ad Agazzi il 4 luglio, in cui un partigiano fu ucciso; il giorno dopo, a una distanza di quattro chilometri, nella fattoria di Molinaccio quindici persone, compresi alcuni sfortunati sfollati della città di Arezzo, furono passati per le armi in rappresaglia da alcuni membri della Flak-Division 25; proprio quel giorno le truppe della 2 New Zealand Division erano giunte ad Olmo, solo a pochi chilometri di distanza.
Il 1° squadrone dello stesso distaccamento era stato molto attivo nelle colline tra Castiglion Fiorentino e San Sepolcro durante il giugno del 1944. Il 22 a Palazzo del Pero avevano ucciso due motociclisti che appartenevano al 1 Feldgendarmerie-Abteilung 692, e distrutto le loro macchine ed il 24 lo squadrone ‘Volante’ aveva catturato tre tedeschi sorpresi a razziare. Più tardi quello stesso giorno dieci sfortunati braccianti, mentre raccoglievano il grano in una fattoria sulla strada Arezzo-San Sepolcro a Molino Nuovo, erano stati catturati dai tedeschi, messi in fila lungo la strada e abbattuti a colpi di mitraglia. Il Comandante tedesco sull’argomento scrive
Sono convinto della loro innocenza, come pure sono convinto che noi abbiamo perduto la guerra; però debbo farli fucilare egualmente. (Tognarini p. 18)
Un rapporto riferisce che il massacro era stato perpetrato senza alcun motivo ma all’osservatore scevro di pregiudizi sembrerebbe piuttosto che sia stata applicata la regola del ‘dieci contro uno’ anche se più moderatamente che in altre occasioni. Questa rappresaglia comunque non fermò l’attività dello squadrone, il quale il giorno successivo si impegnò in tre scontri coi tedeschi durante i quali furono uccise un numero imprecisato di persone. A seguito di questi attacchi due giovanotti furono catturati e impiccati nelle vicinanze di Monterchi con l’accusa di essere partigiani.
Mentre durante la notte del 2 luglio i partigiani del 2° squadrone del ‘Favalto’ entrarono segretamente a Castiglion Fiorentino per aspettare l’arrivo della 2 New Zealand Division che era alla testa della 6 Armoured Division, la retroguardia tedesca fece irruzione nella casa del prete a Palazzo del Pero e profanò il sacramento. Il 10 si ebbe un massacro di tredici persone alla vicina Badicroce descritto come segue dai Carabinieri
Le SS occupano (sic) la fattoria, sede di rifugio di alcuni sfollati, e vennero (sic) trucidate tredici persone. Una giovane sposa fu presa dai tedeschi. Dopo due giorni fu trovata...con segni evidenti di violenza carnale, con la testa straziata. Un vecchio di settantasei anni, che non poteva camminare, fu fatto ruzzolare da un ciglione e lì fucilato. (Curina 1957 pp. 503-4)
I Carabinieri non spiegano il motivo della strage ma sul sito web dell’Associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri Caduti per la Libertà della Patria si legge il seguente
La Fattoria di Badicroce viene occupata dai nazisti, malgrado la presenza di un considerevole numero di sfollati. Il proprietario dott. Alberto Lisi, inviso ai nazisti è costretto alla fuga. Purtroppo uno dei germanici occupanti viene ucciso ed il comando nazista ordina la rappresaglia: tredici innocenti vengono trucidati. (www.anfim.it)
Il giorno precedente a La Speranza il comando del 2° distaccamento ‘Favalto’ della ‘Pio Borri’, essendosi spostato a nord con la liberazione di Cortona da parte del 56 Reconnaissance Regiment, era stato coinvolto in una battaglia con le truppe tedesche durante la quale sei soldati rimasero uccisi. Questo segnò l’inizio dell’intensificarsi dell’attività partigiana tra La Speranza e Poti, che ebbe tragiche conseguenze per gli abitanti dei tre villaggi di Pietramala, Molin dei Falchi e San Severo Pomaio, ma anche per i partigiani stessi. Successivamente, il 13 luglio vi fu un attacco sferrato ad un convoglio tedesco a Camagiura da parte del 2° squadrone del 2° distaccamento ‘Favalto’ nel quale rimasero uccisi quattro partigiani.
Lo stesso giorno il 4° squadrone del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ aveva sferrato un attacco ai tedeschi a Molinelli. Lo scopo di tutta questa attività era di prendere il Passo dello Scopetone, superato il quale i partigiani dovevano scendere ad Arezzo. Il commento completamente inadeguato dei partigiani su quello che accadde a San Severo Pomaio è che
Il ripiegamento, avvenuto celermente nella zona di S. Severo, provocava la reazione dei tedeschi sulla popolazione di quella località, dato che essi non erano riusciti ad attuare i loro piani per l'agganciamento dei nostri reparti al fine di annientarli. (Casella p. 235)
Quattordici civili, tutti uomini, pagarono con la loro vita.
Pietramala e San Polo
Nella vicina Pietramala ed a Molin dei Falchi i tedeschi uccisero anche donne e bambini, spazzando via tre generazioni della famiglia Buzzini compreso un neonato di meno di un mese di età. (Vedi la lapide qui sopra) Ci sono varie testimonianze che spiegano che cosa accadde e perché. La mattina del 15 luglio un ufficiale dal comando del Grenadier–Regiment 274 della 94 Infanterie-Division che aveva la sua base a Villa Mancini, San Polo, un paese a nord di Arezzo situato dove la strada di montagna che attraversa Pietramala raggiunge la Valle dell’Arno, andò alla casa di Don Angelo Lazzeri, il prete, a riferire che
quarantasette uomini erano stati fucilati all'ordine del Colonnello, costretto da necessità, perché banditi avevano tirato a soldati tedeschi passati per le strade o a piedi o con automezzi, e perché avevano tenuto come prigionieri sedici, perlomeno, soldati tedeschi, che erano stati liberati dagli altri camerati. Questi banditi erano tutti confessi. (Tognarini p. 149)
Sembra che i partigiani appartenessero ai primi due distaccamenti della ‘Pio Borri’. La loro versione dei fatti è che la sera del 13 luglio venti di loro si erano fermati nel paesino per il pernottamento dato che erano diretti a sud, e portavano con loro venticinque prigionieri da un campo di Catenaia alle linee alleate. Il comandante della Divisione Arezzo, Siro Rossetti, che si trovava lì di persona, aveva ordinato loro di nascondere le armi nei boschi e mescolarsi alla popolazione locale. Lui stesso, insieme ad un paio di altri uomini, rimase a guardia dei prigionieri che venivano tenuti nella cantina di una casa, mentre gli altri partigiani erano sparsi per le varie case, allo scopo di evitare di attirare l’attenzione del nemico.
Verso l’una di notte del 14 luglio i tedeschi insieme ad alcune spie fasciste cominciarono a fare fuoco con fucili automatici e mortai, ed a lanciare granate sulle case dal bosco che si trova al di sopra del paese. Nelle perquisizioni che seguirono i partigiani furono catturati quasi immediatamente; tra loro c’erano Angelo Ricapito ed Eugenio Calò, che erano venuti a cercare Rossetti per consegnargli un messaggio da parte dei britannici che avevano incontrato a Cortona, e lo studente di medicina Mario Sbrilli che serviva come medico ai partigiani. Oltre ai partigiani, furono catturati altri diciannove uomini e furono tutti massacrati eccetto uno a San Polo. Rossetti e pochi altri dei suoi uomini furono tanto fortunati da riuscire a sopravvivere al rastrellamento; gli uomini rimasero bloccati in una casa che andò in fiamme mentre Rossetti si salvò rimanendo quattro ore immerso nella gora del mulino col naso a fior d'acqua. Gli avevano sparato contro e lo ritenevano morto. (Casella p. 234)
Vincenzo Chianini nel suo libro Gli Unni in Toscana riferisce
Dopo aver liberato i tredici prigionieri trattenuti dai partigiani...si erano gettati come belve idrofobe nelle camere dei civili, sparando alla cieca. “In un letto”, mi raccontò Don Carlo, “ho trovato morto marito, moglie e una figliola di sei anni. Nello stesso letto giaceva un bambino nato da venti giorni, con un braccio spappolato da una pallottola. Morti e feriti che gemevano agonizzando, in ogni stanza e nei dintorni, abbandonato da carnefici tra le macerie fumanti. I morti accertati erano diciannove, fra i quali una vecchia paralizzata, certa Testi, della cui famiglia era scampato uno solo perché assente...Fra i cadaveri umani giacevano carogne di animali domestici, massacrati nella foia sanguinaria. Mentre le case ardevano fra i gemiti dei moribondi i massacratori se ne erano andati carichi di bottino, spingendosi avanti quanti incontrarono per via...I Vandali avevano preso la strada di Antria, luogo del loro acquartieramento, cantando inni barbarici del Terzo Reich, trascinando oltre cinquanta prigionieri.” (Chianini pp. 119-120)
Un rapporto dei Carabinieri alla Presidenza del Consiglio dei Ministri del 7 agosto 1944 esordisce dichiarando che un gruppo di soldati tedeschi lasciò San Polo il 14 luglio per le località vicine di Pietramala e Molin dei Falchi al fine di sferrare un attacco ai partigiani. Alle sei del mattino assaltarono una casa a Molin dei Falchi e liberarono diversi prigionieri tedeschi, poi dettero fuoco ad un fienile vicino alla porta. Uno degli uomini che era stato tenuto prigioniero, Marschall Hans Plumer, alle proteste degli evacuati di Arezzo che si trovavano nel paesino ed erano stati arrestati indiscriminatamente senza riguardo per l’età o il sesso, fu udito controbattere, “Non siete evacuati, siete tutti partigiani, dovete morire tutti”, benché sapesse bene quale era la situazione.
Una fonte riporta che il numero di decessi civili sia nel paese che lungo la strada ammontò a dodici ed inoltre c’erano tre feriti. Gli ostaggi - più di cinquanta compresi donne e bambini - furono fatti marciare in direzione di San Polo, spintonati e battuti col calcio dei fucili mentre procedevano sulla strada verso il paese. Lungo la strada i tedeschi uccisero una donna incinta, poi spararono a sua madre allo stomaco, e inflissero la stessa sorte ad un bambino che si era fermato un momento per riprendere fiato, nonché a due vecchi che non riuscivano a camminare. Una coppia di anziani e una ragazza che erano stati torturati furono feriti. Gli uomini furono rinchiusi in una cantina al piano terra della Villa Mancini e gli altri furono portati in un garage. In entrambi i luoghi furono usati dei pezzi di tubo di gomma per picchiarli, e furono colpiti sulla testa, sulla schiena e sulle gambe col calcio dei fucili. Le loro grida, gli strilli furono sentiti insieme ai lamenti “Oddio, basta”, e furono visti grondare di sangue. Alcune persone avevano i vestiti ridotti a brandelli.
Quel pomeriggio alle 17:30 il primo gruppo di prigionieri lasciò Villa Mancini e attraversò i campi fino a Villa Gigliosi; dopo mezz’ora furono seguiti da un altro gruppo e alle 18:30 l’ultimo gruppo fece lo stesso tragitto. Avevano tutti le mani incrociate dietro la testa, avevano difficoltà a camminare e una persona era completamente nuda. Ciascuno dei tre gruppi era accompagnato da circa quindici soldati armati di fucile, pistola e un piccolo manganello a testa. Alle sette e un quarto circa si udirono degli spari, poi calò il silenzio più totale.
La sera del 15, quando i tedeschi si stavano ritirando a fronte dell’avanzata delle truppe britanniche, quattro donne con tre bambini, che erano stati fatti tutti prigionieri con gli altri ostaggi ma che erano sopravvissuti all’eccidio, furono fatti salire su un camion che partiva con a bordo i soldati che erano stati di stanza a Villa Mancini e furono portati via.
quarantasette uomini erano stati fucilati all'ordine del Colonnello, costretto da necessità, perché banditi avevano tirato a soldati tedeschi passati per le strade o a piedi o con automezzi, e perché avevano tenuto come prigionieri sedici, perlomeno, soldati tedeschi, che erano stati liberati dagli altri camerati. Questi banditi erano tutti confessi. (Tognarini p. 149)
Sembra che i partigiani appartenessero ai primi due distaccamenti della ‘Pio Borri’. La loro versione dei fatti è che la sera del 13 luglio venti di loro si erano fermati nel paesino per il pernottamento dato che erano diretti a sud, e portavano con loro venticinque prigionieri da un campo di Catenaia alle linee alleate. Il comandante della Divisione Arezzo, Siro Rossetti, che si trovava lì di persona, aveva ordinato loro di nascondere le armi nei boschi e mescolarsi alla popolazione locale. Lui stesso, insieme ad un paio di altri uomini, rimase a guardia dei prigionieri che venivano tenuti nella cantina di una casa, mentre gli altri partigiani erano sparsi per le varie case, allo scopo di evitare di attirare l’attenzione del nemico.
Verso l’una di notte del 14 luglio i tedeschi insieme ad alcune spie fasciste cominciarono a fare fuoco con fucili automatici e mortai, ed a lanciare granate sulle case dal bosco che si trova al di sopra del paese. Nelle perquisizioni che seguirono i partigiani furono catturati quasi immediatamente; tra loro c’erano Angelo Ricapito ed Eugenio Calò, che erano venuti a cercare Rossetti per consegnargli un messaggio da parte dei britannici che avevano incontrato a Cortona, e lo studente di medicina Mario Sbrilli che serviva come medico ai partigiani. Oltre ai partigiani, furono catturati altri diciannove uomini e furono tutti massacrati eccetto uno a San Polo. Rossetti e pochi altri dei suoi uomini furono tanto fortunati da riuscire a sopravvivere al rastrellamento; gli uomini rimasero bloccati in una casa che andò in fiamme mentre Rossetti si salvò rimanendo quattro ore immerso nella gora del mulino col naso a fior d'acqua. Gli avevano sparato contro e lo ritenevano morto. (Casella p. 234)
Vincenzo Chianini nel suo libro Gli Unni in Toscana riferisce
Dopo aver liberato i tredici prigionieri trattenuti dai partigiani...si erano gettati come belve idrofobe nelle camere dei civili, sparando alla cieca. “In un letto”, mi raccontò Don Carlo, “ho trovato morto marito, moglie e una figliola di sei anni. Nello stesso letto giaceva un bambino nato da venti giorni, con un braccio spappolato da una pallottola. Morti e feriti che gemevano agonizzando, in ogni stanza e nei dintorni, abbandonato da carnefici tra le macerie fumanti. I morti accertati erano diciannove, fra i quali una vecchia paralizzata, certa Testi, della cui famiglia era scampato uno solo perché assente...Fra i cadaveri umani giacevano carogne di animali domestici, massacrati nella foia sanguinaria. Mentre le case ardevano fra i gemiti dei moribondi i massacratori se ne erano andati carichi di bottino, spingendosi avanti quanti incontrarono per via...I Vandali avevano preso la strada di Antria, luogo del loro acquartieramento, cantando inni barbarici del Terzo Reich, trascinando oltre cinquanta prigionieri.” (Chianini pp. 119-120)
Un rapporto dei Carabinieri alla Presidenza del Consiglio dei Ministri del 7 agosto 1944 esordisce dichiarando che un gruppo di soldati tedeschi lasciò San Polo il 14 luglio per le località vicine di Pietramala e Molin dei Falchi al fine di sferrare un attacco ai partigiani. Alle sei del mattino assaltarono una casa a Molin dei Falchi e liberarono diversi prigionieri tedeschi, poi dettero fuoco ad un fienile vicino alla porta. Uno degli uomini che era stato tenuto prigioniero, Marschall Hans Plumer, alle proteste degli evacuati di Arezzo che si trovavano nel paesino ed erano stati arrestati indiscriminatamente senza riguardo per l’età o il sesso, fu udito controbattere, “Non siete evacuati, siete tutti partigiani, dovete morire tutti”, benché sapesse bene quale era la situazione.
Una fonte riporta che il numero di decessi civili sia nel paese che lungo la strada ammontò a dodici ed inoltre c’erano tre feriti. Gli ostaggi - più di cinquanta compresi donne e bambini - furono fatti marciare in direzione di San Polo, spintonati e battuti col calcio dei fucili mentre procedevano sulla strada verso il paese. Lungo la strada i tedeschi uccisero una donna incinta, poi spararono a sua madre allo stomaco, e inflissero la stessa sorte ad un bambino che si era fermato un momento per riprendere fiato, nonché a due vecchi che non riuscivano a camminare. Una coppia di anziani e una ragazza che erano stati torturati furono feriti. Gli uomini furono rinchiusi in una cantina al piano terra della Villa Mancini e gli altri furono portati in un garage. In entrambi i luoghi furono usati dei pezzi di tubo di gomma per picchiarli, e furono colpiti sulla testa, sulla schiena e sulle gambe col calcio dei fucili. Le loro grida, gli strilli furono sentiti insieme ai lamenti “Oddio, basta”, e furono visti grondare di sangue. Alcune persone avevano i vestiti ridotti a brandelli.
Quel pomeriggio alle 17:30 il primo gruppo di prigionieri lasciò Villa Mancini e attraversò i campi fino a Villa Gigliosi; dopo mezz’ora furono seguiti da un altro gruppo e alle 18:30 l’ultimo gruppo fece lo stesso tragitto. Avevano tutti le mani incrociate dietro la testa, avevano difficoltà a camminare e una persona era completamente nuda. Ciascuno dei tre gruppi era accompagnato da circa quindici soldati armati di fucile, pistola e un piccolo manganello a testa. Alle sette e un quarto circa si udirono degli spari, poi calò il silenzio più totale.
La sera del 15, quando i tedeschi si stavano ritirando a fronte dell’avanzata delle truppe britanniche, quattro donne con tre bambini, che erano stati fatti tutti prigionieri con gli altri ostaggi ma che erano sopravvissuti all’eccidio, furono fatti salire su un camion che partiva con a bordo i soldati che erano stati di stanza a Villa Mancini e furono portati via.
L'arrivo delle truppe britanniche
Mentre i tedeschi del Grenadier-Regiment 274 erano intenti a cercare di eliminare i partigiani ed i loro spalleggiatori, i loro commilitoni della 15 Panzergrenadier-Division combattevano contro la 6 British Armoured Division e la 2 New Zealand Division, che avanzavano lentamente lungo il versante orientale della Valdichiana. Nella notte tra il 12 e il 13 i neozelandesi conquistarono Monte Maggio e Monte Lignano, due cime dell’Appennino occidentale che danno sugli accessi meridionali ad Arezzo. Poi la 1 Guards Brigade della 6 British Armoured Division passò alla testa e all’una di notte del 15 lanciarono un potente attacco alla città.
I tedeschi opposero una resistenza tenace ma si ritirarono prima dell’alba del 16 luglio, e alle 7 del mattino il 16/5 Lancers della 26 Armoured Brigade entrò ad Arezzo; alle 9:30 riferì che la città era stata liberata. Entro le 13:00 il 2 Lothians and Border Horse, un altro reggimento della stessa brigata, aveva raggiunto l’Arno a Quarata dove trovò il ponte Buriano sorprendentemente intatto. Il B Squadron del 16/5 Lancers rimase in posizione nella città fino alle 18:00, quando sopraggiunse a dare loro il cambio le King’s Dragoon Guards.
La seguente citazione proviene dal Diario di Guerra delle King’s Dragoon Guards
16 luglio. Raggiunta Arezzo alle 1800.
17 luglio. Le pattuglie dello B Squadron avanzano verso Antria e Palazzo.
18 luglio. Tempo molto bello e caldo. Molte indicazioni da parte dei civili della presenza nemica su tutto il nostro territorio. Lo B Squadron ha scoperto i corpi mutilati di 47 uomini italiani uccisi nella maniera più brutale quattro giorni fa. .
Il reggimento di ricognizione della Divisione, il 1 Derbyshire Yeomanry, riporta quanto segue
16 luglio 1944. Dopo che la 6 Armoured Division aveva preso Arezzo, lo B Squadron ha cominciato il lavoro di ricognizione degli accessi nord orientali alla città. La 4 Troop, sulla strada nord orientale, è avanzata oltre San Polo fino alla prima collina dove è stata sottoposta a colpi di mitragliatore e granate, ed è stato ordinato loro di ritirarsi a San Polo dove sono venuti a conoscenza del massacro da parte dei tedeschi di quarantasette civili e hanno raccolto i dati per una adeguata indagine sui fatti.
Il Diario di Guerra della 1 Guards Brigade il 17 luglio riporta
La storia del massacro di San Polo è stata oggetto di inchiesta da parte della Army Film Unit, che indossando maschere antigas ha fotografato i corpi. Sembra che il nemico abbia tenuto prigionieri questi quarantasette uomini (alcuni di appena diciassette anni) in una casa a San Polo e prima della ritirata li abbia uccisi a colpi di bastone e baionetta. Li hanno seppelliti nel giardino di una casa in tre fosse comuni e prima di riempire le fosse hanno fatto saltare con la dinamite i corpi che vi giacevano, probabilmente nell’intento di renderli irriconoscibili. La popolazione locale ha dissotterrato i corpi e si sono appellati a noi perché fosse resa di pubblico dominio questa ennesima atrocità tedesca.
Secondo i medici che esaminarono i cadaveri, alcuni erano stati uccisi a colpi di arma da fuoco, altri erano morti per asfissia o a causa delle esplosioni.
Un altro terribile massacro, benché di minore entità, perpetrato a Staggiano vicino Arezzo, venne alla luce solo il 16 luglio all’arrivo della 6 British Armoured Division. Durante la settimana precedente sembrava che i tedeschi, credendo che le due fattorie Casa Carboni e Casa Matucci fossero i luoghi dove i partigiani tenevano nascoste le armi, le saccheggiarono, dettero loro fuoco e uccisero i buoi nelle stalle. Gli abitanti fuggirono verso i boschi, ma i tedeschi cominciarono a inseguire gli uomini e ne catturarono sei, compreso un giovane che avevano visto nascondere una pistola in un pagliaio. Furono portati al comando tedesco installato nella villa del fascista locale Sacchetti, dopo di che nessuno seppe più niente di loro, benché il 12 si fossero uditi dei colpi provenienti da quella direzione. Il 16 furono trovati i loro corpi in una fossa vicino alla villa. Avevano sparato loro con pallottole di piombo e avevano dell’esplosivo infilato nelle tasche. I Carabinieri riferirono che sembrava come se li avessero sepolti vivi.
I partigiani non avevano svolto la loro attività solo sulle colline ad est della città. L’8 luglio trenta uomini erano entrati ad Arezzo segretamente dalla loro postazione di Molin dei Falchi, certamente per essere sul luogo quando fossero arrivati i britannici, cosicché avrebbero potuto rivendicare la loro parte nella liberazione della città e prendere in mano il controllo degli interessi locali. Una fonte riporta
...il 16 luglio 1944, con le truppe alleate che avanzavano verso Arezzo, le formazioni partigiane discesero dalle montagne e liberarono la città, dove da alcuni giorni era penetrato un nucleo partigiano. Alle 7 del mattino i partigiani salirono sulla storica torre del palazzo comunale dove issarono la bandiera tricolore e, in segno di festa per l'avvenuta liberazione, fecero suonare a martello il campano (sic). Alle 10 il primo carro Sherman faceva il proprio ingresso nella piazza che i partigiani avevano appena denominato ‘Piazza dei Martiri Antifascisti’ e pavesato di bandiere britanniche (Union Jack). Alle 20:30 Radio Londra annunciava “Arezzo è stata liberata dai partigiani”. (Sereni p. 3)
Sfortunatamente qualcuno aveva omesso di informare Radio Londra cheprima di salire sulla torre del Palazzo Comunale i partigiani aspettavano l’arrivo delle truppe britanniche. Sul sito della Commonwealth War Graves Commission, responsabile della tutela dei cimiteri di guerra britannici e del Commonwealth, appare un’altra versione della liberazione della città di Arezzo
I tedeschi opposero resistenza davanti ad Arezzo nella prima parte di luglio 1944 e ci fu una battaglia cruenta prima che la città fosse presa il 16 luglio dalla 6 British Armoured Division con la partecipazione della 2 New Zealand Division. Sia la 4 Indian Division e l' 8 Indian Division combatterono in questa zona.(www.cwgc.org/search/cemetery)
Nel Cimitero di Guerra di Indicatore giacciono 1,266 soldati britannici, neozelandesi ed indiani che morirono durante le battaglie che liberarono Arezzo ed il Casentino. Non solo non veniva riconosciuto ai britannici il merito di aver creato le condizioni che avevano costretto i tedeschi a ritirarsi, ma sembrava addirittura che non fossero benvenuti. Il diario della 1 Guards Brigade riporta che, diversamente da quanto era accaduto a Perugia,
non c’era la folla emozionata ad acclamare il nostro ingresso...La città era stata piuttosto danneggiata dai nostri bombardamenti e la popolazione nota per le sue simpatie fasciste si era rifugiata nelle colline circostanti.
Con sorpresa i britannici scoprirono piuttosto che il nuovo sindaco e un consiglio di dieci membri erano stati eletti il giorno precedente, il 15 luglio, dal CLN. Il sindaco era il professor Antonio Curina del Partito d’Azione e le altre dieci cariche erano state distribuite due ciascuna a ognuno dei cinque partiti politici che formavano il Comitato di Liberazione – i Liberali, il Partito d’Azione, i Socialisti, i Democratici Cristiani ed i Comunisti. Le preparazioni segrete che erano state fatte durante l’inverno del 1943-44 per ottenere il controllo politico subito dopo la liberazione della città avevano dato i loro frutti. Curina stesso, a proposito del progetto del CLN di inviare i partigiani nella città in anticipo dell’arrivo alleato, scrisse chel'occupazione preventiva di Arezzo effettuata dalle forze della Resistenza, avrebbe notevolmente aumentato il prestigio delle formazioni partigiane e rafforzato l'autorità del Comune e della Provincia. (Casella p. 232)
Come si poteva prevedere, non ci fu tanta simpatia tra il Comando Alleato e il Comitato di Liberazione. I partigiani sembravano contrari a riconoscere che il grosso dello sforzo bellico era stato fatto dalle truppe alleate; per scopi di propaganda avevano bisogno di essere riconosciuti come coloro che avevano costretto i tedeschi a ritirarsi verso la Linea Gotica. Un commento riporta
Per gli Alleati la parola ‘Liberazione’ rappresentava una stonatura e quasi un’offesa considerato che Arezzo era stata da loro ‘liberata’ il giorno dell’occupazione e cioè il 16 luglio del 1944. (Curina 1964 p. 8)
I tedeschi opposero una resistenza tenace ma si ritirarono prima dell’alba del 16 luglio, e alle 7 del mattino il 16/5 Lancers della 26 Armoured Brigade entrò ad Arezzo; alle 9:30 riferì che la città era stata liberata. Entro le 13:00 il 2 Lothians and Border Horse, un altro reggimento della stessa brigata, aveva raggiunto l’Arno a Quarata dove trovò il ponte Buriano sorprendentemente intatto. Il B Squadron del 16/5 Lancers rimase in posizione nella città fino alle 18:00, quando sopraggiunse a dare loro il cambio le King’s Dragoon Guards.
La seguente citazione proviene dal Diario di Guerra delle King’s Dragoon Guards
16 luglio. Raggiunta Arezzo alle 1800.
17 luglio. Le pattuglie dello B Squadron avanzano verso Antria e Palazzo.
18 luglio. Tempo molto bello e caldo. Molte indicazioni da parte dei civili della presenza nemica su tutto il nostro territorio. Lo B Squadron ha scoperto i corpi mutilati di 47 uomini italiani uccisi nella maniera più brutale quattro giorni fa. .
Il reggimento di ricognizione della Divisione, il 1 Derbyshire Yeomanry, riporta quanto segue
16 luglio 1944. Dopo che la 6 Armoured Division aveva preso Arezzo, lo B Squadron ha cominciato il lavoro di ricognizione degli accessi nord orientali alla città. La 4 Troop, sulla strada nord orientale, è avanzata oltre San Polo fino alla prima collina dove è stata sottoposta a colpi di mitragliatore e granate, ed è stato ordinato loro di ritirarsi a San Polo dove sono venuti a conoscenza del massacro da parte dei tedeschi di quarantasette civili e hanno raccolto i dati per una adeguata indagine sui fatti.
Il Diario di Guerra della 1 Guards Brigade il 17 luglio riporta
La storia del massacro di San Polo è stata oggetto di inchiesta da parte della Army Film Unit, che indossando maschere antigas ha fotografato i corpi. Sembra che il nemico abbia tenuto prigionieri questi quarantasette uomini (alcuni di appena diciassette anni) in una casa a San Polo e prima della ritirata li abbia uccisi a colpi di bastone e baionetta. Li hanno seppelliti nel giardino di una casa in tre fosse comuni e prima di riempire le fosse hanno fatto saltare con la dinamite i corpi che vi giacevano, probabilmente nell’intento di renderli irriconoscibili. La popolazione locale ha dissotterrato i corpi e si sono appellati a noi perché fosse resa di pubblico dominio questa ennesima atrocità tedesca.
Secondo i medici che esaminarono i cadaveri, alcuni erano stati uccisi a colpi di arma da fuoco, altri erano morti per asfissia o a causa delle esplosioni.
Un altro terribile massacro, benché di minore entità, perpetrato a Staggiano vicino Arezzo, venne alla luce solo il 16 luglio all’arrivo della 6 British Armoured Division. Durante la settimana precedente sembrava che i tedeschi, credendo che le due fattorie Casa Carboni e Casa Matucci fossero i luoghi dove i partigiani tenevano nascoste le armi, le saccheggiarono, dettero loro fuoco e uccisero i buoi nelle stalle. Gli abitanti fuggirono verso i boschi, ma i tedeschi cominciarono a inseguire gli uomini e ne catturarono sei, compreso un giovane che avevano visto nascondere una pistola in un pagliaio. Furono portati al comando tedesco installato nella villa del fascista locale Sacchetti, dopo di che nessuno seppe più niente di loro, benché il 12 si fossero uditi dei colpi provenienti da quella direzione. Il 16 furono trovati i loro corpi in una fossa vicino alla villa. Avevano sparato loro con pallottole di piombo e avevano dell’esplosivo infilato nelle tasche. I Carabinieri riferirono che sembrava come se li avessero sepolti vivi.
I partigiani non avevano svolto la loro attività solo sulle colline ad est della città. L’8 luglio trenta uomini erano entrati ad Arezzo segretamente dalla loro postazione di Molin dei Falchi, certamente per essere sul luogo quando fossero arrivati i britannici, cosicché avrebbero potuto rivendicare la loro parte nella liberazione della città e prendere in mano il controllo degli interessi locali. Una fonte riporta
...il 16 luglio 1944, con le truppe alleate che avanzavano verso Arezzo, le formazioni partigiane discesero dalle montagne e liberarono la città, dove da alcuni giorni era penetrato un nucleo partigiano. Alle 7 del mattino i partigiani salirono sulla storica torre del palazzo comunale dove issarono la bandiera tricolore e, in segno di festa per l'avvenuta liberazione, fecero suonare a martello il campano (sic). Alle 10 il primo carro Sherman faceva il proprio ingresso nella piazza che i partigiani avevano appena denominato ‘Piazza dei Martiri Antifascisti’ e pavesato di bandiere britanniche (Union Jack). Alle 20:30 Radio Londra annunciava “Arezzo è stata liberata dai partigiani”. (Sereni p. 3)
Sfortunatamente qualcuno aveva omesso di informare Radio Londra cheprima di salire sulla torre del Palazzo Comunale i partigiani aspettavano l’arrivo delle truppe britanniche. Sul sito della Commonwealth War Graves Commission, responsabile della tutela dei cimiteri di guerra britannici e del Commonwealth, appare un’altra versione della liberazione della città di Arezzo
I tedeschi opposero resistenza davanti ad Arezzo nella prima parte di luglio 1944 e ci fu una battaglia cruenta prima che la città fosse presa il 16 luglio dalla 6 British Armoured Division con la partecipazione della 2 New Zealand Division. Sia la 4 Indian Division e l' 8 Indian Division combatterono in questa zona.(www.cwgc.org/search/cemetery)
Nel Cimitero di Guerra di Indicatore giacciono 1,266 soldati britannici, neozelandesi ed indiani che morirono durante le battaglie che liberarono Arezzo ed il Casentino. Non solo non veniva riconosciuto ai britannici il merito di aver creato le condizioni che avevano costretto i tedeschi a ritirarsi, ma sembrava addirittura che non fossero benvenuti. Il diario della 1 Guards Brigade riporta che, diversamente da quanto era accaduto a Perugia,
non c’era la folla emozionata ad acclamare il nostro ingresso...La città era stata piuttosto danneggiata dai nostri bombardamenti e la popolazione nota per le sue simpatie fasciste si era rifugiata nelle colline circostanti.
Con sorpresa i britannici scoprirono piuttosto che il nuovo sindaco e un consiglio di dieci membri erano stati eletti il giorno precedente, il 15 luglio, dal CLN. Il sindaco era il professor Antonio Curina del Partito d’Azione e le altre dieci cariche erano state distribuite due ciascuna a ognuno dei cinque partiti politici che formavano il Comitato di Liberazione – i Liberali, il Partito d’Azione, i Socialisti, i Democratici Cristiani ed i Comunisti. Le preparazioni segrete che erano state fatte durante l’inverno del 1943-44 per ottenere il controllo politico subito dopo la liberazione della città avevano dato i loro frutti. Curina stesso, a proposito del progetto del CLN di inviare i partigiani nella città in anticipo dell’arrivo alleato, scrisse chel'occupazione preventiva di Arezzo effettuata dalle forze della Resistenza, avrebbe notevolmente aumentato il prestigio delle formazioni partigiane e rafforzato l'autorità del Comune e della Provincia. (Casella p. 232)
Come si poteva prevedere, non ci fu tanta simpatia tra il Comando Alleato e il Comitato di Liberazione. I partigiani sembravano contrari a riconoscere che il grosso dello sforzo bellico era stato fatto dalle truppe alleate; per scopi di propaganda avevano bisogno di essere riconosciuti come coloro che avevano costretto i tedeschi a ritirarsi verso la Linea Gotica. Un commento riporta
Per gli Alleati la parola ‘Liberazione’ rappresentava una stonatura e quasi un’offesa considerato che Arezzo era stata da loro ‘liberata’ il giorno dell’occupazione e cioè il 16 luglio del 1944. (Curina 1964 p. 8)
Il Pratomagno centrale e orientale
LAPIDE NEL GIARDINO DI MONTEMIGNAIO
Le splendide pendici superiori del Pratomagno orientale ammantate di boschi degradano verso una serie di torrenti tra i quali lo Scheggia, il Teggina e il Talla, che saltano giù da ripide coste nel Casentino dove si immettono nell’Arno. Dall’inizio di giugno 1944 queste valli e la massa montuosa di cui fanno parte erano sotto il controllo dei partigiani. La paura che attanagliava le bande nasceva dai cartelli che i tedeschi avevano distribuito ovunque, che dicevano 'Achtung Banden gehiet. Nur im geleit fahren'. Ossia ‘Attenzione, territorio infestato da banditi. Viaggiare solo sotto scorta’. Tutti i convogli tedeschi erano accompagnati dalle scorte da Bibbiena in poi verso nord per valicare i passi montani di Calla e Consuma. Il Diario di Guerra della Feldpolizei Geheimdienstbericht for July riferisce che la popolazione, specialmente nella parte orientale del Pratomagno da Talla a Montemignaio si trova completamente sotto l'influenza dei banditi e li aiuta, in particolare, con il passaggio di informazione.
Due diverse Brigate Garibaldi operavano nel Pratomagno centrale e orientale. La 22ª ‘Lanciotto’, che faceva parte della Resistenza fiorentina, aveva la sua base nel paese di Montemignaio, mentre i distaccamenti ‘Sante Tani’ e ‘Licio Nencetti’ della 23ª Brigata ‘Pio Borri’ operavano sopra i villaggi di Ortignano e Raggiolo. Dal 4 marzo in poi il ‘Volante’ del ‘Licio Nencetti’ operava sopra Talla. Un membro del ‘Volante’, scrivendo della sua decisione e quella di tanti altri giovani di unirsi ai partigiani, spiegava che
il ‘Gruppo Casentino’ nacque per iniziativa di un nucleo di giovani casentinesi che, interpreti della volontà popolare, si opposero per primi ai fascisti ed ai tedeschi, organizzando grup¬pi per la lotta armata. Attorno a questi sparuti nuclei si raggrupparono, sempre in maggior numero, volontari, che pur essendo cresciuti nel clima fascista, manifestavano un grande amore per la libertà, certamente ereditato dai padri. Tra i primi aderenti ci fu anche qualche giovane che, più che da ideale di libertà, fu spinto da spirito di avventura ma non resse ai primi disagi e si ritirò. Non mancò neppure l'opportunista, convinto di una immediata sconfitta dei tedeschi ma quando si rese conto che la guerra andava per le lunghe e che l'esito era ancora incerto, abbandonò la formazione a cui aveva aderito.
Altri, avendo obblighi di leva, preferirono arruolarsi nella formazione partigiana, anziché nella GNR. Se avessero potuto, certamente avrebbero preferito restare tranquilli, presso le pro¬prie famiglie purtuttavia restarono nella formazione fino al giorno della liberazione e si comportarono bene. Sarebbe ingiusto sottolineare la mancanza, in loro, di un ideale profondamente sentito. Erano così giovani che non avevano potuto conoscere il valore della libertà e tuttavia, nonostante avessero indossato la divisa di figli della lupa e di avanguardisti, avevano sentito il bisogno di rinunciare ad una vita comoda, ad una sicura paga, ad un comodo letto, per andare a vivere nei seccatoi, nei boschi coperti di neve, dove non sempre avrebbero trovato da mangia¬re e dove sarebbero stati braccati come banditi. (Sacconi pp. 6-7)
Il 3° distaccamento era una dei componenti più attivi della ‘Pio Borri’. La sua area principale di operazione erano i versante orientali del Pratomagno, da Grassina, Poppi e Stia in avanti fino a Raggiolo, Bibbiena e Salutio, ma fece anche un paio di incursioni a San Giustino Valdarno. Guidati dal diciassettenne Licio Nencetti, uno dei suoi primi exploit fu l’attacco del 18 marzo condotto ai danni dell’Hotel Bei di Bibbiena, dove si trovavano a cena i fascisti locali; uno dei commensali rimase ucciso e un altro ferito. Lo stesso Nencetti fu catturato dai repubblichini il 24 maggio a Uomo di Sasso in cima al Pratomagno allorché ritornava da una riunione col comandante della Garibaldi Divisione ‘Arno’. Dopo essere stato torturato fu ucciso a colpi d’arma da fuoco dal repubblichino Mario Sorrentini nella piazza di Talla.
Due diverse Brigate Garibaldi operavano nel Pratomagno centrale e orientale. La 22ª ‘Lanciotto’, che faceva parte della Resistenza fiorentina, aveva la sua base nel paese di Montemignaio, mentre i distaccamenti ‘Sante Tani’ e ‘Licio Nencetti’ della 23ª Brigata ‘Pio Borri’ operavano sopra i villaggi di Ortignano e Raggiolo. Dal 4 marzo in poi il ‘Volante’ del ‘Licio Nencetti’ operava sopra Talla. Un membro del ‘Volante’, scrivendo della sua decisione e quella di tanti altri giovani di unirsi ai partigiani, spiegava che
il ‘Gruppo Casentino’ nacque per iniziativa di un nucleo di giovani casentinesi che, interpreti della volontà popolare, si opposero per primi ai fascisti ed ai tedeschi, organizzando grup¬pi per la lotta armata. Attorno a questi sparuti nuclei si raggrupparono, sempre in maggior numero, volontari, che pur essendo cresciuti nel clima fascista, manifestavano un grande amore per la libertà, certamente ereditato dai padri. Tra i primi aderenti ci fu anche qualche giovane che, più che da ideale di libertà, fu spinto da spirito di avventura ma non resse ai primi disagi e si ritirò. Non mancò neppure l'opportunista, convinto di una immediata sconfitta dei tedeschi ma quando si rese conto che la guerra andava per le lunghe e che l'esito era ancora incerto, abbandonò la formazione a cui aveva aderito.
Altri, avendo obblighi di leva, preferirono arruolarsi nella formazione partigiana, anziché nella GNR. Se avessero potuto, certamente avrebbero preferito restare tranquilli, presso le pro¬prie famiglie purtuttavia restarono nella formazione fino al giorno della liberazione e si comportarono bene. Sarebbe ingiusto sottolineare la mancanza, in loro, di un ideale profondamente sentito. Erano così giovani che non avevano potuto conoscere il valore della libertà e tuttavia, nonostante avessero indossato la divisa di figli della lupa e di avanguardisti, avevano sentito il bisogno di rinunciare ad una vita comoda, ad una sicura paga, ad un comodo letto, per andare a vivere nei seccatoi, nei boschi coperti di neve, dove non sempre avrebbero trovato da mangia¬re e dove sarebbero stati braccati come banditi. (Sacconi pp. 6-7)
Il 3° distaccamento era una dei componenti più attivi della ‘Pio Borri’. La sua area principale di operazione erano i versante orientali del Pratomagno, da Grassina, Poppi e Stia in avanti fino a Raggiolo, Bibbiena e Salutio, ma fece anche un paio di incursioni a San Giustino Valdarno. Guidati dal diciassettenne Licio Nencetti, uno dei suoi primi exploit fu l’attacco del 18 marzo condotto ai danni dell’Hotel Bei di Bibbiena, dove si trovavano a cena i fascisti locali; uno dei commensali rimase ucciso e un altro ferito. Lo stesso Nencetti fu catturato dai repubblichini il 24 maggio a Uomo di Sasso in cima al Pratomagno allorché ritornava da una riunione col comandante della Garibaldi Divisione ‘Arno’. Dopo essere stato torturato fu ucciso a colpi d’arma da fuoco dal repubblichino Mario Sorrentini nella piazza di Talla.
Ortignano-Raggiolo e Quota
Dieci giorni prima dell’attacco al Hotel Bei il partigiano Giuseppe Vernari, tornato a casa a Ortignano per procurarsi del pane per i compagni, incontrò alcuni membri della GNR tra cui Egidio Mistretta, segretario fascista di Ortignano che rimase ucciso nella scaramuccia che ne seguì. Durante la notte i fascisti tornarono coi rinforzi da Bibbiena e insieme ad alcuni tedeschi dettero fuoco alla casa del Vernari, uccidendo sua moglie e prendendo in ostaggio undici civili che portarono con loro a Bibbiena.
Don Silio Bidi, il prete di Ortignano, aveva dato aiuto ai partigiani in vari modi, tra cui l’uso della sua macchina da scrivere. Riporta nel suo diario
Alla gente, che per timore della rappresaglia si rifiutava di restare in casa, dove si sentiva indifesa e insicura, misi a disposizione la chiesa, che divenne per più giorni rifugio e dormitorio. (Sacconi p. 37)
A Bibbiena i fascisti prepararono il funerale di Mistretta e alla sua conclusione gli undici ostaggi di Ortignano, tra cui un vecchio di ottanta anni e due donne, dovevano essere fucilati. Il prete di Bibbiena, Don Walfrido Pendolesi, che doveva confessarli, intervenne in loro difesa. La sua testimonianza riporta che
fu stabilito che un apposito tribunale di guerra li avrebbe giudicati, e se ritenuti colpevoli, sarebbero condannati, naturalmente, senza interrogatorio, ne avvocato ne testimoni. Questo tribunale si insediò nella caserma dei carabinieri di Bibbiena il giorno 12 marzo; era composto da gerarchetti fascisti. Io mi presentai, mi introdussi di forza nella sala della riunione. Chiesi di parlare e con vivacità e decisione sostenni la completa innocenza degli accusati. I giudici non se la sentirono più di pronunciare sentenze di morte; gli ostaggi restarono ancora in prigione per qualche tempo ed io mi recavo, quando me lo era consentito, a trovarli; mi avvalevo di permessi falsi e scaduti, riuscivo a rifornirli di cibo e di vestiti di tutto perché fossero rimessi in libertà. Poi, un giorno, verso la fine di aprile, inforcai la bicicletta e raggiunsi Arezzo. Lì riuscii ad abboccarmi con il prefetto Rao Torres, al quale dissi che non sarei uscito dal suo ufficio finché non mi avesse firmato un ordine di scarcerazione per tutti i condannati. Il prefetto ordinava al commissionario fascista Zuccaro di mettere in libertà i miei undici parrocchiani. (Ibidem p. 38)
In questa area della Provincia di Arezzo ci furono molti casi di repubblichini che disertarono e passarono alle fila dei partigiani dopo la presa di Roma del 4 giugno. L’8 fu la volta del personale militare di Poppi, il 10 quella di un gruppo di giovani appartenenti alla guardia di Zuccaro, e il 17 di un intero plotone della GNR di Bibbiena. Se si fossero convertiti all’anti-fascismo oppure se si fossero resi conto di come potevano andare a finire le cose, questo non si può stabilire con certezza. Quello che è certo invece è che quei fascisti che erano ancora fedeli alleati dei tedeschi continuarono a far sentire la loro presenza nei villaggi del Pratomagno; infatti la prima delle atrocità commesse ad Ortignano-Raggiolo fu la tortura e uccisione di una ragazza di nome Bruna Sandroni, una staffetta partigiana che
viene catturata dai fascisti della GNR comandati da Abbatecola il 15 giugno 1944 presso il Corsalone. Dopo inenarrabili sevizie e torture la donna viene massacrata a colpi di pugnale. La salma viene condotta all'ospedale di Bibbiena e, solo dopo un violento scontro verbale con il sottufficiale repubblichino, il parroco di Ortignano riesce a recuperare e a far dare degna sepoltura ai resti della staffetta Bruna. (www. memoria. provincia.ar.it)
Due giorni dopo, l’azione partigiana cominciò in modo molto deciso, uno di loro fu ucciso in uno scontro in cui furono presi prigionieri due tedeschi; i nazisti risposero spostandosi a Raggiolo e dando fuoco a quattro case. Il 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ sferrò una numerosa serie di attacchi alle truppe tedesche per tutto il resto del mese di giugno. Il 23 alcuni uomini del 1° squadrone sorpresero un gruppo d’assalto tedesco e nella battaglia che ne seguì diversi tedeschi furono feriti o uccisi e un partigiano rimase ferito. Il giorno seguente due attacchi separati a mezzi di trasporto, opera dei 2° e 3° squadroni, causarono la morte di quattro tedeschi e il ferimento di diversi altri, inoltre il 2° squadrone affrontò anche alcune truppe tedesche in una battaglia a Ponte Lame sulla strada Ortignano-Raggiolo.
Il mese di luglio iniziò nella stessa vena. Il 5 luglio a Vallenoci vicino Ortignano-Raggiolo il 1° squadrone sfidò alcuni tedeschi che stavano setacciando la zona, e il 9, in un altro attacco ancora ad un convoglio tedesco a Ponte Lame, essi distrussero vari veicoli, si impossessarono di numerosi armamenti, uccisero tre soldati e presero due prigionieri. Temendo rappresaglie, il 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ allora lasciò la propria postazione a Monteborgnoli per spostarsi a Carda, in cima al Pratomagno, e fu inviata una lettera al comando tedesco in cui minacciavano di uccidere i due prigionieri se vi fossero state rappresaglie da una qualunque parte.
Il pomeriggio stesso i tedeschi dettero fuoco ad otto case ad Ortignano e uccisero una donna, gettandone il corpo nelle fiamme. Di conseguenza i partigiani diedero seguito alla minaccia di giustiziare i due prigionieri tedeschi. Il 10 nella vicina Quota i tedeschi presero cinque uomini in ostaggio e in seguito li fucilarono sulla piazza del paese. La spirale delle uccisioni continuò l’11, allorché un partigiano fu impiccato ad un cavo dell’elettricità vicino San Piero in Frassino dove fu lasciato per tre giorni, e altri tre ostaggi furono giustiziati in un luogo solitario e lasciati lì senza sepoltura. I tedeschi si spostarono poi a Monteborgnoli dove dettero fuoco al paese dopo aver razziato le case e rubato tutto quello che riuscirono a racimolare; dopo di che tornarono ad Ortignano e bruciarono altre dieci case, compresa quella in cui viveva il prete. Il 13 fu ucciso un uomo nel bosco di castagni sopra il paese. Un resoconto descrive ulteriori rappresaglie che fortunatamente non comportarono la perdita di vite umane.
E così arriviamo al 18 luglio 1944. La strada, che da Bibbiena conduce a Ortignano-Raggiolo, è percorsa da diecine e diecine di automezzi e la truppa invade le abitazioni, sparpagliandosi nei campi, vuotando le stalle, rubando tutto ciò che può far loro comodo, commettendo razzie di ogni genere, irridendo al dolore ed alla miseria di tanta gente, con una gazzarra degna dei soldati di Attila. Qualche casa fu scrupolosamente perquisita e spogliata; ad un fanciullo furono perfino tolte le scarpe dai piedi; financo le candele della chiesa vennero rubate, e neppure gli automezzi che erano adibiti al servizio pubblico della linea Bibbiena-Ortignano furono risparmiati; alcuni vennero portati via e altri messi fuori. (Curina 1957 p. 468)
Complessivamente tra il 9 e il 18 luglio trentuno case furono distrutte da incendi e dodici persone persero la vita. Anche singole famiglie che si opposero alle richieste dei tedeschi furono vittime del terrore. Ad Ama vicino Pratovecchio il 23 luglio i tedeschi dettero fuoco ad una casa uccidendo il proprietario che aveva cercato di impedire ai soldati di stuprare sua figlia.
La peggiore azione verificatasi in questa area del Casentino fu riservata ai sessantotto uomini di Ortignano ed ai centocinquanta di Poppi che furono deportati in Germania. Il 7 di agosto, un manifesto firmato da un certo Gino Begotti apparve nel paese di Poppi; annunciava che tutti gli individui di sesso maschile tra i diciotto ed i quarantacinque anni dovevano presentarsi presso la scuola con una coperta, preparati a rimanere lontano da casa per diversi giorni. Se qualcuno si fosse nascosto sarebbe stato fucilato non appena ritrovato, e la sua casa e la sua famiglia sarebbero state annientate. Il 25 agosto furono mandati in un campo di concentramento in Germania via Forlì-Bologna-Carpi di Modena-Verona; un anno dopo alcuni ritornarono ma la maggior parte di loro sparì per sempre.
Don Silio Bidi, il prete di Ortignano, aveva dato aiuto ai partigiani in vari modi, tra cui l’uso della sua macchina da scrivere. Riporta nel suo diario
Alla gente, che per timore della rappresaglia si rifiutava di restare in casa, dove si sentiva indifesa e insicura, misi a disposizione la chiesa, che divenne per più giorni rifugio e dormitorio. (Sacconi p. 37)
A Bibbiena i fascisti prepararono il funerale di Mistretta e alla sua conclusione gli undici ostaggi di Ortignano, tra cui un vecchio di ottanta anni e due donne, dovevano essere fucilati. Il prete di Bibbiena, Don Walfrido Pendolesi, che doveva confessarli, intervenne in loro difesa. La sua testimonianza riporta che
fu stabilito che un apposito tribunale di guerra li avrebbe giudicati, e se ritenuti colpevoli, sarebbero condannati, naturalmente, senza interrogatorio, ne avvocato ne testimoni. Questo tribunale si insediò nella caserma dei carabinieri di Bibbiena il giorno 12 marzo; era composto da gerarchetti fascisti. Io mi presentai, mi introdussi di forza nella sala della riunione. Chiesi di parlare e con vivacità e decisione sostenni la completa innocenza degli accusati. I giudici non se la sentirono più di pronunciare sentenze di morte; gli ostaggi restarono ancora in prigione per qualche tempo ed io mi recavo, quando me lo era consentito, a trovarli; mi avvalevo di permessi falsi e scaduti, riuscivo a rifornirli di cibo e di vestiti di tutto perché fossero rimessi in libertà. Poi, un giorno, verso la fine di aprile, inforcai la bicicletta e raggiunsi Arezzo. Lì riuscii ad abboccarmi con il prefetto Rao Torres, al quale dissi che non sarei uscito dal suo ufficio finché non mi avesse firmato un ordine di scarcerazione per tutti i condannati. Il prefetto ordinava al commissionario fascista Zuccaro di mettere in libertà i miei undici parrocchiani. (Ibidem p. 38)
In questa area della Provincia di Arezzo ci furono molti casi di repubblichini che disertarono e passarono alle fila dei partigiani dopo la presa di Roma del 4 giugno. L’8 fu la volta del personale militare di Poppi, il 10 quella di un gruppo di giovani appartenenti alla guardia di Zuccaro, e il 17 di un intero plotone della GNR di Bibbiena. Se si fossero convertiti all’anti-fascismo oppure se si fossero resi conto di come potevano andare a finire le cose, questo non si può stabilire con certezza. Quello che è certo invece è che quei fascisti che erano ancora fedeli alleati dei tedeschi continuarono a far sentire la loro presenza nei villaggi del Pratomagno; infatti la prima delle atrocità commesse ad Ortignano-Raggiolo fu la tortura e uccisione di una ragazza di nome Bruna Sandroni, una staffetta partigiana che
viene catturata dai fascisti della GNR comandati da Abbatecola il 15 giugno 1944 presso il Corsalone. Dopo inenarrabili sevizie e torture la donna viene massacrata a colpi di pugnale. La salma viene condotta all'ospedale di Bibbiena e, solo dopo un violento scontro verbale con il sottufficiale repubblichino, il parroco di Ortignano riesce a recuperare e a far dare degna sepoltura ai resti della staffetta Bruna. (www. memoria. provincia.ar.it)
Due giorni dopo, l’azione partigiana cominciò in modo molto deciso, uno di loro fu ucciso in uno scontro in cui furono presi prigionieri due tedeschi; i nazisti risposero spostandosi a Raggiolo e dando fuoco a quattro case. Il 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ sferrò una numerosa serie di attacchi alle truppe tedesche per tutto il resto del mese di giugno. Il 23 alcuni uomini del 1° squadrone sorpresero un gruppo d’assalto tedesco e nella battaglia che ne seguì diversi tedeschi furono feriti o uccisi e un partigiano rimase ferito. Il giorno seguente due attacchi separati a mezzi di trasporto, opera dei 2° e 3° squadroni, causarono la morte di quattro tedeschi e il ferimento di diversi altri, inoltre il 2° squadrone affrontò anche alcune truppe tedesche in una battaglia a Ponte Lame sulla strada Ortignano-Raggiolo.
Il mese di luglio iniziò nella stessa vena. Il 5 luglio a Vallenoci vicino Ortignano-Raggiolo il 1° squadrone sfidò alcuni tedeschi che stavano setacciando la zona, e il 9, in un altro attacco ancora ad un convoglio tedesco a Ponte Lame, essi distrussero vari veicoli, si impossessarono di numerosi armamenti, uccisero tre soldati e presero due prigionieri. Temendo rappresaglie, il 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ allora lasciò la propria postazione a Monteborgnoli per spostarsi a Carda, in cima al Pratomagno, e fu inviata una lettera al comando tedesco in cui minacciavano di uccidere i due prigionieri se vi fossero state rappresaglie da una qualunque parte.
Il pomeriggio stesso i tedeschi dettero fuoco ad otto case ad Ortignano e uccisero una donna, gettandone il corpo nelle fiamme. Di conseguenza i partigiani diedero seguito alla minaccia di giustiziare i due prigionieri tedeschi. Il 10 nella vicina Quota i tedeschi presero cinque uomini in ostaggio e in seguito li fucilarono sulla piazza del paese. La spirale delle uccisioni continuò l’11, allorché un partigiano fu impiccato ad un cavo dell’elettricità vicino San Piero in Frassino dove fu lasciato per tre giorni, e altri tre ostaggi furono giustiziati in un luogo solitario e lasciati lì senza sepoltura. I tedeschi si spostarono poi a Monteborgnoli dove dettero fuoco al paese dopo aver razziato le case e rubato tutto quello che riuscirono a racimolare; dopo di che tornarono ad Ortignano e bruciarono altre dieci case, compresa quella in cui viveva il prete. Il 13 fu ucciso un uomo nel bosco di castagni sopra il paese. Un resoconto descrive ulteriori rappresaglie che fortunatamente non comportarono la perdita di vite umane.
E così arriviamo al 18 luglio 1944. La strada, che da Bibbiena conduce a Ortignano-Raggiolo, è percorsa da diecine e diecine di automezzi e la truppa invade le abitazioni, sparpagliandosi nei campi, vuotando le stalle, rubando tutto ciò che può far loro comodo, commettendo razzie di ogni genere, irridendo al dolore ed alla miseria di tanta gente, con una gazzarra degna dei soldati di Attila. Qualche casa fu scrupolosamente perquisita e spogliata; ad un fanciullo furono perfino tolte le scarpe dai piedi; financo le candele della chiesa vennero rubate, e neppure gli automezzi che erano adibiti al servizio pubblico della linea Bibbiena-Ortignano furono risparmiati; alcuni vennero portati via e altri messi fuori. (Curina 1957 p. 468)
Complessivamente tra il 9 e il 18 luglio trentuno case furono distrutte da incendi e dodici persone persero la vita. Anche singole famiglie che si opposero alle richieste dei tedeschi furono vittime del terrore. Ad Ama vicino Pratovecchio il 23 luglio i tedeschi dettero fuoco ad una casa uccidendo il proprietario che aveva cercato di impedire ai soldati di stuprare sua figlia.
La peggiore azione verificatasi in questa area del Casentino fu riservata ai sessantotto uomini di Ortignano ed ai centocinquanta di Poppi che furono deportati in Germania. Il 7 di agosto, un manifesto firmato da un certo Gino Begotti apparve nel paese di Poppi; annunciava che tutti gli individui di sesso maschile tra i diciotto ed i quarantacinque anni dovevano presentarsi presso la scuola con una coperta, preparati a rimanere lontano da casa per diversi giorni. Se qualcuno si fosse nascosto sarebbe stato fucilato non appena ritrovato, e la sua casa e la sua famiglia sarebbero state annientate. Il 25 agosto furono mandati in un campo di concentramento in Germania via Forlì-Bologna-Carpi di Modena-Verona; un anno dopo alcuni ritornarono ma la maggior parte di loro sparì per sempre.
Montemignaio
LAPIDE A MONTEMIGNAIO
Più a nord-ovest sul Pratomagno si trova il paese di Montemignaio; gli abitanti erano stati molto prodighi nel loro appoggio ai partigiani, e per questo il prezzo che pagarono fu molto elevato. Il Diario di Guerra tedesco del 16 aprile riferisce che sedici partigiani sorpresi da militari fascisti della GNR furono uccisi a colpi di arma da fuoco. Questa azione probabilmente era parte del piano generale di rastrellamento per l’eliminazione dei partigiani nella zona, ed è opportuno ricordare che il giorno seguente ne furono uccisi diciassette a Stia. I rastrellamenti continuarono durante il mese di maggio ed il 21 due persone furono uccise a colpi di arma da fuoco nel paese di Garliano, vicino Castel San Niccolò. Una fonte riporta
Orde naziste assaltano la frazione..sparando all'impazzata per terrorizzare gli abitanti. Restano uccisi due uomini. La soldataglia cattura il Parroco ed alcuni abitanti e li minaccia di morte. Fortunatamente, dopo alcune ore, tutti vengono rimessi in libertà. (ius.regione.toscana.it/memorie- del_900)
Il partigiano Vasco Palazzeschi ricorda così l’arrivo della ‘Lanciotto’ a Montemignaio alla fine di maggio:
Traversammo la Consuma senza intoppi e puntammo su Montemignaio. Attraversammo l'abitato sotto gli sguardi amichevoli e stupefatti di quella popolazione che per la prima volta vedeva marciare tanti partigiani insieme. Questo fatto, ingigantito poi nella fantasia popolare, si diffuse nei giorni successivi con la notizia che 1000 partigiani armati fino ai denti e perfino provvisti di mezzi corazzati, si erano diretti verso il Pratomagno...Ci prendemmo qualche giorno di riposo e nel contempo, iniziammo a studiare la vasta zona per organizzare i campi base, individuare le località dove ricevere il lancio di armi tanto promesso dagli Alleati. Eravamo in attesa del lancio nei pressi di Uomo di Sasso...Questo lancio purtroppo non arrivò mai...solo dall'aereo ‘amico’ soltanto qualche raffica di mitraglia preannunciante quella certa diffidenza che riscontrammo poi da parte degli Alleati nei confronti delle Brigate Garibaldine. (Palazzeschi V. p. 65)
Quando le attività partigiane si intensificarono in giugno a seguito degli annunci del General Alexander, ci furono due scontri coi tedeschi a Montemignaio; il Diario di Guerra tedesco riporta quanto segue:
Il 20 giugno la compagnia si è scontrata con un grosso gruppo. Un ufficiale e due soldati sono caduti, e altri due soldati sono rimasti gravemente feriti. In questo scontro sono stati uccisi cinque partigiani nel bosco e nelle vicinanze del paese. Nella battaglia della Valle della Scheggia (10 km ad ovest di Poppi) sono stati uccisi altri dieci banditi. Le perdite nel 11/3 Regiment-Brandenburg sono state due morti e quattro feriti.
Non molto tempo dopo ebbero luogo le prevedibili rappresaglie. Il 22 giugno la Flak-Lehr und Ausbildungs-Kompanie accompagnata dalla milizia fascista entrò nel paese, fece irruzione nelle case e catturò quattordici uomini con l’intenzione di fucilarli. Di questi quattordici, undici furono uccisi, due riuscirono a scappare, e uno rimase solo ferito. Sette giorni dopo, il 29, il giorno degli orribili massacri di Civitella e San Pancrazio, fu il turno di altri cinque civili a Montemignaio che furono uccisi dai soldati del Korük 594. Un resoconto afferma che, tra i cinque che erano stati catturati nel distretto di Carbonaio lungo il fiume Scheggia, c’erano una donna e un ragazzo di sedici anni che furono torturati prima di essere uccisi. Il Diario di Guerra tedesco conclude dicendo
La popolazione maschile che si trovava nell’area del combattimento è stata rastrellata e fucilata. Il paese è stato incendiato.
Ci sono due lapidi commemorative a Montemignaio, una nella piazza vicino alla quale le undici vittime furono fucilate il 29, e un’altra nella parte bassa del paese nella zona chiamata La Pieve, su cui sono incisi i nomi delle undici vittime della piazza insieme a quelli di altre undici persone comprese varie donne. Le ultime vittime a Montemignaio furono due giovani che i tedeschi uccisero il 4 settembre.
Orde naziste assaltano la frazione..sparando all'impazzata per terrorizzare gli abitanti. Restano uccisi due uomini. La soldataglia cattura il Parroco ed alcuni abitanti e li minaccia di morte. Fortunatamente, dopo alcune ore, tutti vengono rimessi in libertà. (ius.regione.toscana.it/memorie- del_900)
Il partigiano Vasco Palazzeschi ricorda così l’arrivo della ‘Lanciotto’ a Montemignaio alla fine di maggio:
Traversammo la Consuma senza intoppi e puntammo su Montemignaio. Attraversammo l'abitato sotto gli sguardi amichevoli e stupefatti di quella popolazione che per la prima volta vedeva marciare tanti partigiani insieme. Questo fatto, ingigantito poi nella fantasia popolare, si diffuse nei giorni successivi con la notizia che 1000 partigiani armati fino ai denti e perfino provvisti di mezzi corazzati, si erano diretti verso il Pratomagno...Ci prendemmo qualche giorno di riposo e nel contempo, iniziammo a studiare la vasta zona per organizzare i campi base, individuare le località dove ricevere il lancio di armi tanto promesso dagli Alleati. Eravamo in attesa del lancio nei pressi di Uomo di Sasso...Questo lancio purtroppo non arrivò mai...solo dall'aereo ‘amico’ soltanto qualche raffica di mitraglia preannunciante quella certa diffidenza che riscontrammo poi da parte degli Alleati nei confronti delle Brigate Garibaldine. (Palazzeschi V. p. 65)
Quando le attività partigiane si intensificarono in giugno a seguito degli annunci del General Alexander, ci furono due scontri coi tedeschi a Montemignaio; il Diario di Guerra tedesco riporta quanto segue:
Il 20 giugno la compagnia si è scontrata con un grosso gruppo. Un ufficiale e due soldati sono caduti, e altri due soldati sono rimasti gravemente feriti. In questo scontro sono stati uccisi cinque partigiani nel bosco e nelle vicinanze del paese. Nella battaglia della Valle della Scheggia (10 km ad ovest di Poppi) sono stati uccisi altri dieci banditi. Le perdite nel 11/3 Regiment-Brandenburg sono state due morti e quattro feriti.
Non molto tempo dopo ebbero luogo le prevedibili rappresaglie. Il 22 giugno la Flak-Lehr und Ausbildungs-Kompanie accompagnata dalla milizia fascista entrò nel paese, fece irruzione nelle case e catturò quattordici uomini con l’intenzione di fucilarli. Di questi quattordici, undici furono uccisi, due riuscirono a scappare, e uno rimase solo ferito. Sette giorni dopo, il 29, il giorno degli orribili massacri di Civitella e San Pancrazio, fu il turno di altri cinque civili a Montemignaio che furono uccisi dai soldati del Korük 594. Un resoconto afferma che, tra i cinque che erano stati catturati nel distretto di Carbonaio lungo il fiume Scheggia, c’erano una donna e un ragazzo di sedici anni che furono torturati prima di essere uccisi. Il Diario di Guerra tedesco conclude dicendo
La popolazione maschile che si trovava nell’area del combattimento è stata rastrellata e fucilata. Il paese è stato incendiato.
Ci sono due lapidi commemorative a Montemignaio, una nella piazza vicino alla quale le undici vittime furono fucilate il 29, e un’altra nella parte bassa del paese nella zona chiamata La Pieve, su cui sono incisi i nomi delle undici vittime della piazza insieme a quelli di altre undici persone comprese varie donne. Le ultime vittime a Montemignaio furono due giovani che i tedeschi uccisero il 4 settembre.
Cetica
LAPIDE A CETICA
La ‘Lanciotto’ operava anche da Cetica, considerando che il paesino - che si trova a sud-est di Montemignaio lungo ripide pendici sopra al fiume Teggina - fosse una postazione strategica per il controllo del Pratomagno. Verso la fine di giugno il loro obiettivo era di impedire, ad ogni costo, che il Pratomagno, ormai liberato, potesse ritornare in mano al nemico e divenire un luogo di rifugio e di sosta per i nazi-fascisti in ritirata, o peggio ancora, un caposaldo di resistenza atto a contrastare l'offensiva alleata. (Palazzeschi 1986 p. 67)
È difficile stabilire se anche le autorità militari tedesche ritenessero il Pratomagno già liberato quando mandarono le truppe del Korük 594 insieme alle truppe del 11/3 Regiment-Brandenburg a Cetica il 29 giugno; proprio come stava succedendo nello stesso tempo a Civitella ed a San Pancrazio occuparono il paese mentre la popolazione terrificata reagiva barricandosi dentro le proprie case. Le strade si svuotarono ed a quel punto le truppe cominciarono ad appiccare il fuoco. Per cercare di sfuggire alla sorte di rimanere bruciati vivi, molti residenti cercarono di fuggire, ma secondo un resoconto dodici di loro furono catturati e fucilati immediatamente. Il Diario di Guerra tedesco descrive l’azione in questo modo
In zona Cetica scontro durato 8 ore tra il 11/3 Regiment-Brandenburg e banditi. Distrutte grande quantità di armi e munizioni, prese due bandiere della 22a Brigata Garibaldi. La località di Cetica è stata bruciata. Effettivi della banda almeno 350 uomini, probabilmente di più. Banda ben addestrata e ben guidata.
La ‘Lanciotto’ dà la seguente versione dei fatti:
Tedeschi e repubblichini vestiti da partigiani tentarono di cogliere di sorpresa la 2a Compagnia campeggiata a Cetica. Tre chilometri prima di arrivare a Cetica si trovarono di fronte ad un imprevisto: una nostra pattuglia che faceva come di consueto buona guardia mandò un messaggio al comandante, il primo successo importante che ci permise di difendere la posizione e sfollare la popolazione. (Palazzeschi p. 3)
L’evacuazione non poteva essere stata del tutto efficace, come dimostra il seguente episodio:
I tedeschi e repubblichini, sempre camuffati da partigiani, venivano avanti facendosi scudo di donne e ragazzi costretti con la minaccia delle armi, per impedire a noi di rispondere al fuoco. Vile azione permise loro di arrivare a Cetica, e appoggiati dal fuoco dei mortai, iniziarne la distruzione. (Ibidem p. 74)
Nel pomeriggio tedeschi e fascisti si ritirarono e caddero in un’imboscata a Pagliericcio. Fu un attacco frontale, molto diverso dalle solite scaramucce da guerriglia, e secondo una versione dei fatti dalla battaglia che ne seguì, risultarono pesante perdite con più di cinquanta morti e numerosi feriti. Un altro resoconto riporta dieci morti e sei feriti tra le perdite dei partigiani e dodici tra quelle dei civili, la distruzione di molte derrate alimentari - frumento, granturco, zucchero, pasta - e di animali da cortile, case e mobilia. Due lapidi commemorative fuori della chiesa di Cetica menzionano quattordici partigiani e sette civili tra i caduti, e un cippo commemorativo sulla strada tra Cetica e Pagliericcio ricorda un padre e suo figlio; tutti vennero uccisi il 29 giugno.
I partigiani dissero che l’attacco a Cetica era stato provocato dalla cattura di una interprete, un personaggio descritto come capo della lotta contro i partigiani, molto odiata dalla gente del luogo. La donna, che era tenuta prigioniera a Cetica dal comandante della ‘Lanciotto’, riuscì a scappare ma fu riacciuffata dai partigiani e riportata nel luogo della detenzione. La sera dello stesso giorno, il 28, un forestiero arrivò al campo sostenendo di essere un ex-maresciallo dei Carabinieri. Dopo aver mostrato i suoi documenti, dichiarò di essere in fuga dalla caserma dove era in servizio nella Venezia Giulia, e di essere diretto al sud. Fu portato al comandante e gli fu offerta ospitalità, ma durante la notte egli scomparve e di lui non si seppe mai più nulla. Il sospetto che fosse una spia fu confermato il giorno seguente dallo scoppio della battaglia. Era chiaro che i tedeschi sapevano dove erano diretti e probabilmente erano intenzionati a liberare i loro prigionieri. I tedeschi arrivarono quando il sole era già alto, più tardi del solito, probabilmente perché avevano dovuto aspettare che tornasse la spia ad informarli
Nei giorni successivi alla battaglia la ‘Lanciotto’ ritenne che la gente di Cetica non ebbe reazione contro di noi. Assieme seppellimmo i nostri morti tutti insieme, ci demmo da fare per aiutare i vivi. (Palazzeschi p. 80) e poteva considerarsi addirittura forza combattente in prima linea pienamente cosciente della buona causa per cui combattevono e della inevitabilità dei rischi da affrontare. (Palazzeschi p. 72) Inoltre, Cetica essendo stata liberata dal fascismo dagli uomini della ‘Lanciotto’, era diventata la ‘Piccola Repubblica del Pratomagno’. (Ibidem p. 72)
I partigiani ricordano che molti di loro si erano tolti parte dei loro abiti, tenendo per sé solo l’essenziale, per condividere con la gente quello che avevano in segno di solidarietà. Sentivano di essere legati a loro da legami profondi, indistruttibile, perché nati nel dolore e nella lotta.
Noi rimanemmo senza viveri. E per una quindicina di giorni si andò avanti con castagne secche, un po' di zucchero e dell' immangiabile carne arrostita (senza sale e senza pane). (Ibidem p. 75)
Per lo meno una persona a Cetica non appoggiava pienamente i partigiani e le loro attività. Il prete li rimproverò per la loro responsabilità nell’attacco al paese. Vasco Palazzeschi ricorda che
Prima di mezzogiorno, non conoscendo la situazione, ci riportammo con cautela in Cetica. La scena che si presentò a noi era terribile; case sventrate, incendi, popolazione fuggita. Le prime persone che incontrammo furono Pantera, che non si era mosso da Cetica e aveva combattuto casa per casa, e il prete che, uscito dalla chiesa, non appena ci vide ci accusò violentemente dì aver provocato quell’ attacco. Dovetti fermare Scalabrino che gli voleva sparare. Se questo prete oggi è vivo, come io gli auguro, avrà avuto modo e tempo per riflettere sul fatto che a Cetica non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunavano donne, vecchie e bambini, li trucidavano selvaggiamente, magari in chiesa. A Cetica ciò non accadde, e non perché quelle belve fossero mosse da umanità. Non accadde perché noi non abbandonammo mai Cetica. I tedeschi non ebbero tempo, anzi, furono inseguiti e contrattaccati in un'imboscata (Ibidem p. 80)
Palazzeschi non riflette sulla eventualità che se la ‘Lanciotto’ non si fosse trovata a Cetica i tedeschi non avrebbero mai avuto l’occasione di entrare nel paese.
È difficile stabilire se anche le autorità militari tedesche ritenessero il Pratomagno già liberato quando mandarono le truppe del Korük 594 insieme alle truppe del 11/3 Regiment-Brandenburg a Cetica il 29 giugno; proprio come stava succedendo nello stesso tempo a Civitella ed a San Pancrazio occuparono il paese mentre la popolazione terrificata reagiva barricandosi dentro le proprie case. Le strade si svuotarono ed a quel punto le truppe cominciarono ad appiccare il fuoco. Per cercare di sfuggire alla sorte di rimanere bruciati vivi, molti residenti cercarono di fuggire, ma secondo un resoconto dodici di loro furono catturati e fucilati immediatamente. Il Diario di Guerra tedesco descrive l’azione in questo modo
In zona Cetica scontro durato 8 ore tra il 11/3 Regiment-Brandenburg e banditi. Distrutte grande quantità di armi e munizioni, prese due bandiere della 22a Brigata Garibaldi. La località di Cetica è stata bruciata. Effettivi della banda almeno 350 uomini, probabilmente di più. Banda ben addestrata e ben guidata.
La ‘Lanciotto’ dà la seguente versione dei fatti:
Tedeschi e repubblichini vestiti da partigiani tentarono di cogliere di sorpresa la 2a Compagnia campeggiata a Cetica. Tre chilometri prima di arrivare a Cetica si trovarono di fronte ad un imprevisto: una nostra pattuglia che faceva come di consueto buona guardia mandò un messaggio al comandante, il primo successo importante che ci permise di difendere la posizione e sfollare la popolazione. (Palazzeschi p. 3)
L’evacuazione non poteva essere stata del tutto efficace, come dimostra il seguente episodio:
I tedeschi e repubblichini, sempre camuffati da partigiani, venivano avanti facendosi scudo di donne e ragazzi costretti con la minaccia delle armi, per impedire a noi di rispondere al fuoco. Vile azione permise loro di arrivare a Cetica, e appoggiati dal fuoco dei mortai, iniziarne la distruzione. (Ibidem p. 74)
Nel pomeriggio tedeschi e fascisti si ritirarono e caddero in un’imboscata a Pagliericcio. Fu un attacco frontale, molto diverso dalle solite scaramucce da guerriglia, e secondo una versione dei fatti dalla battaglia che ne seguì, risultarono pesante perdite con più di cinquanta morti e numerosi feriti. Un altro resoconto riporta dieci morti e sei feriti tra le perdite dei partigiani e dodici tra quelle dei civili, la distruzione di molte derrate alimentari - frumento, granturco, zucchero, pasta - e di animali da cortile, case e mobilia. Due lapidi commemorative fuori della chiesa di Cetica menzionano quattordici partigiani e sette civili tra i caduti, e un cippo commemorativo sulla strada tra Cetica e Pagliericcio ricorda un padre e suo figlio; tutti vennero uccisi il 29 giugno.
I partigiani dissero che l’attacco a Cetica era stato provocato dalla cattura di una interprete, un personaggio descritto come capo della lotta contro i partigiani, molto odiata dalla gente del luogo. La donna, che era tenuta prigioniera a Cetica dal comandante della ‘Lanciotto’, riuscì a scappare ma fu riacciuffata dai partigiani e riportata nel luogo della detenzione. La sera dello stesso giorno, il 28, un forestiero arrivò al campo sostenendo di essere un ex-maresciallo dei Carabinieri. Dopo aver mostrato i suoi documenti, dichiarò di essere in fuga dalla caserma dove era in servizio nella Venezia Giulia, e di essere diretto al sud. Fu portato al comandante e gli fu offerta ospitalità, ma durante la notte egli scomparve e di lui non si seppe mai più nulla. Il sospetto che fosse una spia fu confermato il giorno seguente dallo scoppio della battaglia. Era chiaro che i tedeschi sapevano dove erano diretti e probabilmente erano intenzionati a liberare i loro prigionieri. I tedeschi arrivarono quando il sole era già alto, più tardi del solito, probabilmente perché avevano dovuto aspettare che tornasse la spia ad informarli
Nei giorni successivi alla battaglia la ‘Lanciotto’ ritenne che la gente di Cetica non ebbe reazione contro di noi. Assieme seppellimmo i nostri morti tutti insieme, ci demmo da fare per aiutare i vivi. (Palazzeschi p. 80) e poteva considerarsi addirittura forza combattente in prima linea pienamente cosciente della buona causa per cui combattevono e della inevitabilità dei rischi da affrontare. (Palazzeschi p. 72) Inoltre, Cetica essendo stata liberata dal fascismo dagli uomini della ‘Lanciotto’, era diventata la ‘Piccola Repubblica del Pratomagno’. (Ibidem p. 72)
I partigiani ricordano che molti di loro si erano tolti parte dei loro abiti, tenendo per sé solo l’essenziale, per condividere con la gente quello che avevano in segno di solidarietà. Sentivano di essere legati a loro da legami profondi, indistruttibile, perché nati nel dolore e nella lotta.
Noi rimanemmo senza viveri. E per una quindicina di giorni si andò avanti con castagne secche, un po' di zucchero e dell' immangiabile carne arrostita (senza sale e senza pane). (Ibidem p. 75)
Per lo meno una persona a Cetica non appoggiava pienamente i partigiani e le loro attività. Il prete li rimproverò per la loro responsabilità nell’attacco al paese. Vasco Palazzeschi ricorda che
Prima di mezzogiorno, non conoscendo la situazione, ci riportammo con cautela in Cetica. La scena che si presentò a noi era terribile; case sventrate, incendi, popolazione fuggita. Le prime persone che incontrammo furono Pantera, che non si era mosso da Cetica e aveva combattuto casa per casa, e il prete che, uscito dalla chiesa, non appena ci vide ci accusò violentemente dì aver provocato quell’ attacco. Dovetti fermare Scalabrino che gli voleva sparare. Se questo prete oggi è vivo, come io gli auguro, avrà avuto modo e tempo per riflettere sul fatto che a Cetica non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunavano donne, vecchie e bambini, li trucidavano selvaggiamente, magari in chiesa. A Cetica ciò non accadde, e non perché quelle belve fossero mosse da umanità. Non accadde perché noi non abbandonammo mai Cetica. I tedeschi non ebbero tempo, anzi, furono inseguiti e contrattaccati in un'imboscata (Ibidem p. 80)
Palazzeschi non riflette sulla eventualità che se la ‘Lanciotto’ non si fosse trovata a Cetica i tedeschi non avrebbero mai avuto l’occasione di entrare nel paese.
Castel Fogognano e Talla
Nella Valle del Rio Soliggine - un affluente della riva destra dell’Arno che ha la sua sorgente sulla vetta del Pratomagno sopra il paese di Castel Focognano - si trova il paese di Pieve Socana. Il 22 giugno, cercando di evitare che i tedeschi potessero mettere le mani sulla lista della popolazione maschile di età tra i diciotto ed i sessanta anni, il 1° squadrone del ‘Licio Nencetti’ distrusse i registri dell’anagrafe del paese. Il giorno dopo lo stesso gruppo rimosse le mine che erano state posizionate sotto il ponte della ferrovia a Sega, vicino Bibbiena, dalle truppe delle SS-Polizei-Führer West (3/Einsatzkommando Bürger). I partigiani avvertirono i tedeschi che se ci fossero state rappresaglie, loro avrebbero istigato delle contro-rappresaglie.
Tre giorni dopo, il 25 giugno, l’azione si intensificò quando il 4° squadrone, il ‘Volante’, attaccò una motocicletta con side-car, ferendo un tedesco che però riuscì a fuggire. Il 26 il ‘Volante’ sferrò un attacco ad alcuni veicoli corazzati che viaggiavano lungo la strada che va da Pieve Socana a Crocina, e due giorni dopo a Villa Farina attaccò un veicolo tedesco uccidendo sette uomini. Il 27 un’ altra azione dello stesso squadrone ai danni di una pattuglia tedesca vicino Bibbiena causò la morte di un partigiano e il ferimento di un altro.
Questo crescente numero di attacchi richiedeva un ulteriore approvvigionamento di armi. Il 2 luglio quattro partigiani diretti ad Arezzo per cercare di procurarle si imbatté in una pattuglia tedesca a Terrasola vicino Bibbiena. Furono presi e portati a Castel Focognano dove furono impiccati due giorni dopo. Le truppe coinvolte appartenevano alla Kompanie 16 del 4 Regiment-Brandenburg che si era spostata in quella zona per rinforzare i loro commilitoni del 11/3 Regiment-Brandenburg il 30 giugno.
A sud di Castel Focognano c’è la valle del fiume Talla. Il 22 giugno un gruppo di partigiani appartenenti al Centro di Collegamento della ‘Pio Borri’, di solito operativo nell’Alpe di Poti ad est del Casentino, si spostò dall’altra parte dell’Arno e catturò un camion tedesco carico di materiali vari a Nassa, un minuscolo insediamento nelle colline ad est del paese di Talla. Due soldati tedeschi furono presi prigionieri. Il 24 giugno il 4° squadrone ‘Volante’ del ‘Licio Nencetti’ distrusse un ponte a Rassina nella Valle dell’Arno, e il giorno seguente sferrò ripetuti attacchi ad alcune autoblinde leggere. Il 28 il 1° squadrone del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ distrusse alcuni veicoli tedeschi a Ponte Talla, uccidendo tre soldati durante l’azione.
Nella prima quindicina di luglio il ‘Licio Nencetti’ fu estremamente attivo nell’area attorno a Talla. Ad ovest del paese, su uno sperone sporgente sul fiume, c’è il paesino di Pieve a Pontenano, e fu vicino a questo abitato che il 4 luglio il ‘Volante’ attaccò alcuni convogli tedeschi, provocando perdite non accertate. Lo stesso giorno, in un’azione sulla SS73 tra Talla e San Giustino contro un’auto corazzata e un’ automobile, il 1° squadrone uccise cinque tedeschi di cui tre ufficiali. L’8 luglio, durante una schermaglia, i tedeschi riuscirono a catturare il partigiano Angelo Valentini del ‘Volante’ e due giorni dopo lo impiccarono ad un platano lungo il fiume nel paese di Talla. Il 12 di luglio, imperterrito, il 3° squadrone attaccò un gruppo di tedeschi che, ritirandosi verso l’abitato di Grecole (situato in alto sulla strada per San Giustino), spararono alla vallata sottostante con tiri d’artiglieria. Lo stesso giorno in un attacco a Monteloro, Fonte Cavallari, il ‘Volante’ uccise due soldati tedeschi appartenenti ad una pattuglia.
In questa zona la risposta immediata agli attacchi ai tedeschi fu minima, considerando che altrove, nei paesi vicini agli avvenimenti, l’intera popolazione maschile era stata massacrata e le abitazioni incendiate. Oltre all’impiccagione del partigiano Valentini, i tedeschi si limitarono a perlustrare il paese di Rassina il 25 giugno, dando fuoco alla casa di un partigiano e rastrellando tutti i civili che misericordiosamente furono poi rilasciati, ed all’esecuzione il 3 di luglio a Talla di una staffetta che avevano catturato mentre portava notizie al 3° distaccamento.
Tre giorni dopo, il 25 giugno, l’azione si intensificò quando il 4° squadrone, il ‘Volante’, attaccò una motocicletta con side-car, ferendo un tedesco che però riuscì a fuggire. Il 26 il ‘Volante’ sferrò un attacco ad alcuni veicoli corazzati che viaggiavano lungo la strada che va da Pieve Socana a Crocina, e due giorni dopo a Villa Farina attaccò un veicolo tedesco uccidendo sette uomini. Il 27 un’ altra azione dello stesso squadrone ai danni di una pattuglia tedesca vicino Bibbiena causò la morte di un partigiano e il ferimento di un altro.
Questo crescente numero di attacchi richiedeva un ulteriore approvvigionamento di armi. Il 2 luglio quattro partigiani diretti ad Arezzo per cercare di procurarle si imbatté in una pattuglia tedesca a Terrasola vicino Bibbiena. Furono presi e portati a Castel Focognano dove furono impiccati due giorni dopo. Le truppe coinvolte appartenevano alla Kompanie 16 del 4 Regiment-Brandenburg che si era spostata in quella zona per rinforzare i loro commilitoni del 11/3 Regiment-Brandenburg il 30 giugno.
A sud di Castel Focognano c’è la valle del fiume Talla. Il 22 giugno un gruppo di partigiani appartenenti al Centro di Collegamento della ‘Pio Borri’, di solito operativo nell’Alpe di Poti ad est del Casentino, si spostò dall’altra parte dell’Arno e catturò un camion tedesco carico di materiali vari a Nassa, un minuscolo insediamento nelle colline ad est del paese di Talla. Due soldati tedeschi furono presi prigionieri. Il 24 giugno il 4° squadrone ‘Volante’ del ‘Licio Nencetti’ distrusse un ponte a Rassina nella Valle dell’Arno, e il giorno seguente sferrò ripetuti attacchi ad alcune autoblinde leggere. Il 28 il 1° squadrone del 1° distaccamento ‘Sante Tani’ distrusse alcuni veicoli tedeschi a Ponte Talla, uccidendo tre soldati durante l’azione.
Nella prima quindicina di luglio il ‘Licio Nencetti’ fu estremamente attivo nell’area attorno a Talla. Ad ovest del paese, su uno sperone sporgente sul fiume, c’è il paesino di Pieve a Pontenano, e fu vicino a questo abitato che il 4 luglio il ‘Volante’ attaccò alcuni convogli tedeschi, provocando perdite non accertate. Lo stesso giorno, in un’azione sulla SS73 tra Talla e San Giustino contro un’auto corazzata e un’ automobile, il 1° squadrone uccise cinque tedeschi di cui tre ufficiali. L’8 luglio, durante una schermaglia, i tedeschi riuscirono a catturare il partigiano Angelo Valentini del ‘Volante’ e due giorni dopo lo impiccarono ad un platano lungo il fiume nel paese di Talla. Il 12 di luglio, imperterrito, il 3° squadrone attaccò un gruppo di tedeschi che, ritirandosi verso l’abitato di Grecole (situato in alto sulla strada per San Giustino), spararono alla vallata sottostante con tiri d’artiglieria. Lo stesso giorno in un attacco a Monteloro, Fonte Cavallari, il ‘Volante’ uccise due soldati tedeschi appartenenti ad una pattuglia.
In questa zona la risposta immediata agli attacchi ai tedeschi fu minima, considerando che altrove, nei paesi vicini agli avvenimenti, l’intera popolazione maschile era stata massacrata e le abitazioni incendiate. Oltre all’impiccagione del partigiano Valentini, i tedeschi si limitarono a perlustrare il paese di Rassina il 25 giugno, dando fuoco alla casa di un partigiano e rastrellando tutti i civili che misericordiosamente furono poi rilasciati, ed all’esecuzione il 3 di luglio a Talla di una staffetta che avevano catturato mentre portava notizie al 3° distaccamento.
Podernuovo e Lagacciolo vicino a La Consuma
LAPIDE A LA CONSUMA
Il 25 agosto alcune case isolate di Podernuovo, nascoste nel fitto del bosco ad ovest del paese di Consuma, furono oggetto di rappresaglia. Il 24 la ‘Perseo’, una formazione partigiana di orientamento cristiano-democratico comandata da Giuseppe Politi, il cui nome di battaglia era Braccioforte, fu coinvolta in un’azione vicino al comando tedesco a Vallombrosa. Il loro diario delle operazioni riporta
24 agosto. Una pattuglia del distaccamento di Reggello, spintasi fino a Saltino per incarico del comando della 1 Grenadier Guards Brigade, impegna combattimento con altra pattuglia tedesca. Che volge in fuga sopra Cascina Vecchia. Un soldato tedesco è stato ucciso.
25 agosto. Un plotone di 40 uomini...partito la sera del 24, rastrella la zona di Perno-Ristonchi- Ferrano. A Ferrano sorprendono le retroguardie tedesche forti di circa 50 e schierata a difesa con armi automatiche. Le truppe medesime minacciavano rappresaglie al paese e la distruzione delle più importanti abitazioni precedentemente minate. Impegnata battaglia, dopo poco i tedeschi si davano alla fuga ripiegandosi verso La Consuma. (Arcangeli di Strozzavolpe A. p. 2)
Diversi giorni prima il prete di Consuma e le suore del convento annesso alla chiesa erano stati estromessi dai loro alloggi dai tedeschi e avevano preso rifugio alla fattoria di Moscia, vicino al paese. Le suore ricordano nel loro diario che la sera del 22 agosto alle dieci e mezzo, un gruppo di tedeschi rumorosi ordinò che fosse evacuata la fattoria, minacciando i residenti di deportarli in un lager nella vicina Dicomano. Le suore, derubate delle loro coperte, si spostarono rapidamente nella fattoria di Podernuovo, che come Moscia era nascosta nel fitto del bosco, e dove un colonnello tedesco veniva intrattenuto per cena.
Il 24 le truppe tedesche fecero saltare in aria vari edifici a Podernuovo e rubarono tutti gli animali e qualunque altra cosa che li attirasse, e il 25 la manodopera maschile della fattoria prese l’iniziativa sensata di andarsi a nascondere nei boschi, spinti dalla paura di essere catturati e magari portati via. Alle sei e mezzo del mattino un piccolo gruppo di soldati tedeschi arrivò alla villa di Lagacciolo, che si trova a breve distanza da Podernuovo, e
costrinsero tutti i presenti prima in una grande sala da pranzo e poi in un bagno...tutte le circa 18 persone vennero stipate...Immediatamente bombe a mano furono gettate dalla porta e probabilmente anche dalla finestra. Loro tiravano a intervalli regolari, quando tutto fu silenzio loro cessarono...Erano convinti che la maggior parte erano rimasti uccisi. (Droandi 1995 p. 17)
Poco dopo le nove la sera dello stesso giorno quattro tedeschi ubriachi arrivarono a Podernuovo dove si trovavano le suore, sparando all’impazzata mentre avanzavano. Anche qui si verificò il disastro:
I tedeschi, affacciatisi alle porte e alle finestre, lanciarono bombe a mano e spararono con i mitra. Una ragazza austriaca, una istitutrice, tentò di fermare la strage, ma fu ferita gravemente da tre colpi e cadde a terra. Entrarono in cucina ed uccisero la fattoressa, la quale si era inginocchiata per implorare pietà. Sparavano ad un bambino che piangeva. (Ibidem p. 17)
Dopo aver ucciso tre persone nella cucina, uscirono fuori e spararono a due braccianti. Le suore continuano il resoconto scrivendo che il 27 una pattuglia tedesca...passeggiava ma non entrò…Non sapevamo che cosa fare quando vedemmo arrivare una squadra di partigiani...Quattro si misero di sentinella con mitragliatrici...gli altri entrarono...e rimasero terrorizzato da tanto strazio. (Sacconi R. cur. 1990 p. 45)
Il diario della formazione partigiana ‘Perseo’ il 28 riporta quanto segue:
Verso Moscia...la nostra pattuglia è fatta segno a sparatoria…Una pattuglia presta a Podernuovo soccorso a undici feriti abbandonati sul terreno assieme a diciannove morti…Inviata subito una staffetta alla Croce Rossa inglese. (Arcangeli di Strozzavolpe A. p. 31)
Secondo le fonti le truppe avanzate della 6 British Armoured Division, avevano occupato una postazione a Bibbiano vicino Pontassieve il 26 agosto e si dirigevano verso il Passo della Consuma; perciò si tratta sicuramente di queste truppe verso le quali i partigiani si diressero per chiedere aiuto per le vittime. Il 28 le suore scrivono che verso le sette si notò il primo carro armato inglese…arrivarono i partigiani con le barelle. (Sacconi cur. p. 45)
Il Diario di Guerra tedesco dà l’impressione che i morti fossero tutti partigiani.
Nell’area del Passo della Consuma e ad ovest di detto luogo diciassette banditi furono uccisi in combattimento.
Come spesso accade, ci sono resoconti diversi sul numero dei morti. La lapide commemorativa del paese menziona venticinque uomini, donne e bambini; il diario dei partigiani riporta diciannove morti e undici feriti, mentre un’altra fonte che fa riferimento a Lagacciolo dà come morti otto tra donne e bambini compreso un anziano di ottanta anni, e conta otto feriti tra donne e bambini. Specifica che sei dei morti erano membri della famiglia Pratesi.
Durante le udienze del War Crimes Commission che si è occupata di questo specifico massacro, sono stati stimati otto morti a Lagacciolo, otto a Podernuovo e tre a Fontina vicino al Passo della Consuma. Nello stesso processo, un testimone ha indicato come causa scatenante l’uccisione di un soldato tedesco e il ferimento di un altro da parte di alcuni civili. Quando è stato suggerito al tedesco incriminato che potessero essere dei partigiani i responsabili della morte del soldato tedesco, egli ha risposto che civili e partigiani erano la stessa cosa.
24 agosto. Una pattuglia del distaccamento di Reggello, spintasi fino a Saltino per incarico del comando della 1 Grenadier Guards Brigade, impegna combattimento con altra pattuglia tedesca. Che volge in fuga sopra Cascina Vecchia. Un soldato tedesco è stato ucciso.
25 agosto. Un plotone di 40 uomini...partito la sera del 24, rastrella la zona di Perno-Ristonchi- Ferrano. A Ferrano sorprendono le retroguardie tedesche forti di circa 50 e schierata a difesa con armi automatiche. Le truppe medesime minacciavano rappresaglie al paese e la distruzione delle più importanti abitazioni precedentemente minate. Impegnata battaglia, dopo poco i tedeschi si davano alla fuga ripiegandosi verso La Consuma. (Arcangeli di Strozzavolpe A. p. 2)
Diversi giorni prima il prete di Consuma e le suore del convento annesso alla chiesa erano stati estromessi dai loro alloggi dai tedeschi e avevano preso rifugio alla fattoria di Moscia, vicino al paese. Le suore ricordano nel loro diario che la sera del 22 agosto alle dieci e mezzo, un gruppo di tedeschi rumorosi ordinò che fosse evacuata la fattoria, minacciando i residenti di deportarli in un lager nella vicina Dicomano. Le suore, derubate delle loro coperte, si spostarono rapidamente nella fattoria di Podernuovo, che come Moscia era nascosta nel fitto del bosco, e dove un colonnello tedesco veniva intrattenuto per cena.
Il 24 le truppe tedesche fecero saltare in aria vari edifici a Podernuovo e rubarono tutti gli animali e qualunque altra cosa che li attirasse, e il 25 la manodopera maschile della fattoria prese l’iniziativa sensata di andarsi a nascondere nei boschi, spinti dalla paura di essere catturati e magari portati via. Alle sei e mezzo del mattino un piccolo gruppo di soldati tedeschi arrivò alla villa di Lagacciolo, che si trova a breve distanza da Podernuovo, e
costrinsero tutti i presenti prima in una grande sala da pranzo e poi in un bagno...tutte le circa 18 persone vennero stipate...Immediatamente bombe a mano furono gettate dalla porta e probabilmente anche dalla finestra. Loro tiravano a intervalli regolari, quando tutto fu silenzio loro cessarono...Erano convinti che la maggior parte erano rimasti uccisi. (Droandi 1995 p. 17)
Poco dopo le nove la sera dello stesso giorno quattro tedeschi ubriachi arrivarono a Podernuovo dove si trovavano le suore, sparando all’impazzata mentre avanzavano. Anche qui si verificò il disastro:
I tedeschi, affacciatisi alle porte e alle finestre, lanciarono bombe a mano e spararono con i mitra. Una ragazza austriaca, una istitutrice, tentò di fermare la strage, ma fu ferita gravemente da tre colpi e cadde a terra. Entrarono in cucina ed uccisero la fattoressa, la quale si era inginocchiata per implorare pietà. Sparavano ad un bambino che piangeva. (Ibidem p. 17)
Dopo aver ucciso tre persone nella cucina, uscirono fuori e spararono a due braccianti. Le suore continuano il resoconto scrivendo che il 27 una pattuglia tedesca...passeggiava ma non entrò…Non sapevamo che cosa fare quando vedemmo arrivare una squadra di partigiani...Quattro si misero di sentinella con mitragliatrici...gli altri entrarono...e rimasero terrorizzato da tanto strazio. (Sacconi R. cur. 1990 p. 45)
Il diario della formazione partigiana ‘Perseo’ il 28 riporta quanto segue:
Verso Moscia...la nostra pattuglia è fatta segno a sparatoria…Una pattuglia presta a Podernuovo soccorso a undici feriti abbandonati sul terreno assieme a diciannove morti…Inviata subito una staffetta alla Croce Rossa inglese. (Arcangeli di Strozzavolpe A. p. 31)
Secondo le fonti le truppe avanzate della 6 British Armoured Division, avevano occupato una postazione a Bibbiano vicino Pontassieve il 26 agosto e si dirigevano verso il Passo della Consuma; perciò si tratta sicuramente di queste truppe verso le quali i partigiani si diressero per chiedere aiuto per le vittime. Il 28 le suore scrivono che verso le sette si notò il primo carro armato inglese…arrivarono i partigiani con le barelle. (Sacconi cur. p. 45)
Il Diario di Guerra tedesco dà l’impressione che i morti fossero tutti partigiani.
Nell’area del Passo della Consuma e ad ovest di detto luogo diciassette banditi furono uccisi in combattimento.
Come spesso accade, ci sono resoconti diversi sul numero dei morti. La lapide commemorativa del paese menziona venticinque uomini, donne e bambini; il diario dei partigiani riporta diciannove morti e undici feriti, mentre un’altra fonte che fa riferimento a Lagacciolo dà come morti otto tra donne e bambini compreso un anziano di ottanta anni, e conta otto feriti tra donne e bambini. Specifica che sei dei morti erano membri della famiglia Pratesi.
Durante le udienze del War Crimes Commission che si è occupata di questo specifico massacro, sono stati stimati otto morti a Lagacciolo, otto a Podernuovo e tre a Fontina vicino al Passo della Consuma. Nello stesso processo, un testimone ha indicato come causa scatenante l’uccisione di un soldato tedesco e il ferimento di un altro da parte di alcuni civili. Quando è stato suggerito al tedesco incriminato che potessero essere dei partigiani i responsabili della morte del soldato tedesco, egli ha risposto che civili e partigiani erano la stessa cosa.
Moggiona
Del tutto in contrasto con quello che aveva causato la tragedia precedente, alla vigilia dell’arrivo delle truppe alleate a Moggiona, che si trova sulla strada che porta al Passo dei Mandrioli, si verificò un massacro che non sembra essere affatto collegato ad attività partigiane. E’ interessante notare che l’autore del seguente resoconto, nel tentativo di spiegare le motivazioni del delitto, commenta l’assenza dei partigiani nella zona. Secondo il suo ragionamento, era la presenza partigiana che portava alle rappresaglie:
La sera del 7 settembre 1944 dei soldati tedeschi uccisero a Moggiona 18 civili innocenti, donne e uomini, bambini ed adulti. Non ci fu nessun motivo per commettere questo brutale crimine, né una rappresaglia per vendicare soldati tedeschi uccisi, né un’azione contro bande partigiane, peraltro non operanti nel paese. Nelle parole di una sopravvissuta alla strage “Non so perché fecero tutto questo, noi non facemmo niente di sbagliato”.
In seguito all'avanzata del fronte di guerra, il 26 agosto una compagnia di soldati tedeschi comandati da un tenente e da un sergente arriva a Moggiona, proveniente da Serravalle, per far sfollare gli abitanti del paese. Dopo essere state radunate nella chiesa del paese, diverse persone vengono avviate a piedi verso Badia Prataglia, da dove verranno poi mandate a Santa Sofia in Romagna. In molti riescono comunque a fuggire nei boschi intorno a Moggiona. Alcuni raggiungono Poppi e la pianura, altri vengono catturati di nuovo dai tedeschi e inviati in Romagna. In un episodio, i tedeschi raggruppano al bordo di una strada presso Moggiona un gruppo di persone il tenente ed il sergente scelgono dal gruppo alcune giovani ragazze e costringono i loro familiari ad andarsene, minacciandoli sparando in aria.
Nel frattempo, ad alcune persone era stato consentito di rimanere nel paese, per svolgere varie mansioni. Le ragazze vengono mandate nella casa di una delle famiglie rimaste, situata nel rione ‘Villa’. Alcune di loro vengono violentate dal tenente e dal sergente tedesco. La sera del 7 Settembre 1944, il tenente ed il sergente entrano in questa casa ed inviano le ragazze, insieme ad alcuni soldati, verso Poppi. Si siedono poi a mangiare e, dopo aver consumato il pasto, aprono il fuoco ed uccidono i cinque occupanti della casa. Muoiono in questa casa Meciani Francesco, Alfonso, Vittorio, Benedetti Isola e Alinari Pietro. Sentono gli spari un anziano del paese (fratello di Benedetti Isola, che fino a pochi minuti prima era stato in quella casa; successivamente aiuterà i superstiti della strage) e due giovani fratelli che, terrorizzati, si erano rifugiati in una fogna.
I due ragazzi vedono poi i tedeschi avviarsi verso la propria casa, situata a poche decine di metri dalla prima. Qui i tedeschi radunano le persone in cantina e, senza parola, sparano nella stanza. Moriranno in tutto 11 persone, fra le quali uno dei due fratelli, Osvaldo Ceccherini, entrato in casa al momento della sparatoria. L'altro, Aurelio, sopravvive e presta i primi soccorsi a suo fratello in fasce, che, seppur illeso, morirà qualche mese dopo questa tragedia) e ad alcuni feriti che purtroppo non riusciranno a superare la notte (la casa del secondo eccidio, come la prima, è stata fatta saltare in aria qualche giorno dopo la strage). Un altro giovane, Francesco Meciani, riesce a fuggire al momento della strage e raggiungerà Poppi in condizioni pietose, portando così per primo la notizia della strage oltre le linee nemiche. I morti in questa casa sono Meciani Consiglia, Candido, Giovanni Battista, Giovanni, Laura, Isolina, Fabbri Maria, Furieri Azelia, Alberti Giovanni e Ceccherini Clara e Osvaldo.
Infine il tenente ed il sergente raggiungono le ragazze che avevano mandato verso Poppi e dicono loro che possono tornare al paese. Mentre le rassicurano dicendo che “non c’è motivo di spaventarsi”, il Sergente apre il fuoco ed uccide 2 persone, Roselli Iole e sua figlia Luigina. Altre due ragazze riescono fortunatamente a scappare nell'oscurità. Il ponte all'ingresso del paese, dove avviene questa ultima efferatezza, viene fatto saltare poco dopo.
La mattina seguente, l’8 settembre, Aurelio Ceccherini si fa aiutare da due anziani del paese e riesce a mettere in salvo sua madre e gli altri bambini sopravvissuti in un'altra casa del paese. Alcuni soldati tedeschi li individuano e li mettono al muro ma mossi forse da pietà, li risparmiano. Fattasi la situazione insostenibile per la mancanza di cibo, la paura e l'aggravarsi delle ferite della madre, Aurelio si reca al Monastero di Camaldoli a chiedere aiuto ai monaci, l'11 Settembre. I sopravvissuti vengono portati a Camaldoli, mentre uno degli anziani si reca a Poppi ad avvertire il sindaco.
Passato il fronte, il 26 Settembre giungono gli Inglesi e contemporaneamente incominciano a tornare i primi paesani, che notano come le case degli eccidi siano state fatte saltare in aria nel frattempo, e che il corpo di Roselli Iole e sua figlia era stato gettato nel fosso. (www.moggiona.it)
Il rapporto della War Crimes Commission afferma che il luogotenente e il sergente responsabili del massacro sarebbero stati spesso ubriachi, che erano considerati maniaci sessuali, e si pensava perciò che avessero compiuto il massacro per puro piacere.
Il resoconto di questo episodio appare pubblicato per la prima volta in un libro scritto da un frate dell’Eremo di Camaldoli, che si trova sulle montagne a sud del Monte Falterona sul Passo dei Mandrioli.
11 Settembre 1944 — Giunge da Moggiona un bambino sui nove anni che ha attraversato la linea di fuoco e a stento, tra singhiozzi e lacrime, riesce a chiedere aiuto per la sua povera mamma, essa pure gravemente ferita al seno e ad una coscia che tuttora giace in una stanza in mezzo a 19 cadaveri massacrati 4 giorni innanzi.
Il coraggioso bambino Aurelio Ceccherini mi raccontò che circa le sei e mezzo del mattino del 7 corrente i tedeschi lasciarono definitivamente Moggiona trascinando seco un cannone tirato da 4 grossi cavalli in direzione dell'Eremo; seguirono altri grossi carri stracarichi di mobilio e masserizie rubate agli sfollati. Le tre famiglie (tra vecchi, donne e bambini, in tutti 22), forzate a rimanere per fare la cucina e il bucato agli stessi tedeschi, rimaste sole, decisero di venire pure loro a Camaldoli.
“Quando verso le nove e mezzo arrivano cinque o sei tedeschi con la pistola e fucile a mitraglia intimandoci di riunirci tutti in una stanza. Appena riuniti, due graduati tedeschi ci gridarono In terra! I due giovani, capito di che si trattava, si buttarono dalle finestre; ma uno dei due tedeschi corse giù e li uccise sul posto; l'altro, rimasto con noi, appena distesi per terra, col fucile a mitraglia sparò fino a tanto che non sentì più un solo lamento; la mamma e il fratellino di soli tre mesi ed io. Ci gettammo dietro la porta, zitti come morti e solo così potemmo, per grazia della Madonna, scampare a quel macello. Una palla trapassò il seno e un'altra una coscia della mamma, per cui non potette più muoversi.”
“Perché non venisti subito ad avvisarci ?”
“La mamma, temendo che quei cattivi, vedendomi, uccidessero pure me, non permise di allontanarmi un solo momento! Solo oggi, non potendo più resistere all'odore cattivo dei 19 morti, sentendoci sfiniti dalla fame, mi benedì e, affidatemi alla protezione della Madonna, permise che venissi a Camaldoli.” (Buffadini A. 1947 p. 70)
La sera del 7 settembre 1944 dei soldati tedeschi uccisero a Moggiona 18 civili innocenti, donne e uomini, bambini ed adulti. Non ci fu nessun motivo per commettere questo brutale crimine, né una rappresaglia per vendicare soldati tedeschi uccisi, né un’azione contro bande partigiane, peraltro non operanti nel paese. Nelle parole di una sopravvissuta alla strage “Non so perché fecero tutto questo, noi non facemmo niente di sbagliato”.
In seguito all'avanzata del fronte di guerra, il 26 agosto una compagnia di soldati tedeschi comandati da un tenente e da un sergente arriva a Moggiona, proveniente da Serravalle, per far sfollare gli abitanti del paese. Dopo essere state radunate nella chiesa del paese, diverse persone vengono avviate a piedi verso Badia Prataglia, da dove verranno poi mandate a Santa Sofia in Romagna. In molti riescono comunque a fuggire nei boschi intorno a Moggiona. Alcuni raggiungono Poppi e la pianura, altri vengono catturati di nuovo dai tedeschi e inviati in Romagna. In un episodio, i tedeschi raggruppano al bordo di una strada presso Moggiona un gruppo di persone il tenente ed il sergente scelgono dal gruppo alcune giovani ragazze e costringono i loro familiari ad andarsene, minacciandoli sparando in aria.
Nel frattempo, ad alcune persone era stato consentito di rimanere nel paese, per svolgere varie mansioni. Le ragazze vengono mandate nella casa di una delle famiglie rimaste, situata nel rione ‘Villa’. Alcune di loro vengono violentate dal tenente e dal sergente tedesco. La sera del 7 Settembre 1944, il tenente ed il sergente entrano in questa casa ed inviano le ragazze, insieme ad alcuni soldati, verso Poppi. Si siedono poi a mangiare e, dopo aver consumato il pasto, aprono il fuoco ed uccidono i cinque occupanti della casa. Muoiono in questa casa Meciani Francesco, Alfonso, Vittorio, Benedetti Isola e Alinari Pietro. Sentono gli spari un anziano del paese (fratello di Benedetti Isola, che fino a pochi minuti prima era stato in quella casa; successivamente aiuterà i superstiti della strage) e due giovani fratelli che, terrorizzati, si erano rifugiati in una fogna.
I due ragazzi vedono poi i tedeschi avviarsi verso la propria casa, situata a poche decine di metri dalla prima. Qui i tedeschi radunano le persone in cantina e, senza parola, sparano nella stanza. Moriranno in tutto 11 persone, fra le quali uno dei due fratelli, Osvaldo Ceccherini, entrato in casa al momento della sparatoria. L'altro, Aurelio, sopravvive e presta i primi soccorsi a suo fratello in fasce, che, seppur illeso, morirà qualche mese dopo questa tragedia) e ad alcuni feriti che purtroppo non riusciranno a superare la notte (la casa del secondo eccidio, come la prima, è stata fatta saltare in aria qualche giorno dopo la strage). Un altro giovane, Francesco Meciani, riesce a fuggire al momento della strage e raggiungerà Poppi in condizioni pietose, portando così per primo la notizia della strage oltre le linee nemiche. I morti in questa casa sono Meciani Consiglia, Candido, Giovanni Battista, Giovanni, Laura, Isolina, Fabbri Maria, Furieri Azelia, Alberti Giovanni e Ceccherini Clara e Osvaldo.
Infine il tenente ed il sergente raggiungono le ragazze che avevano mandato verso Poppi e dicono loro che possono tornare al paese. Mentre le rassicurano dicendo che “non c’è motivo di spaventarsi”, il Sergente apre il fuoco ed uccide 2 persone, Roselli Iole e sua figlia Luigina. Altre due ragazze riescono fortunatamente a scappare nell'oscurità. Il ponte all'ingresso del paese, dove avviene questa ultima efferatezza, viene fatto saltare poco dopo.
La mattina seguente, l’8 settembre, Aurelio Ceccherini si fa aiutare da due anziani del paese e riesce a mettere in salvo sua madre e gli altri bambini sopravvissuti in un'altra casa del paese. Alcuni soldati tedeschi li individuano e li mettono al muro ma mossi forse da pietà, li risparmiano. Fattasi la situazione insostenibile per la mancanza di cibo, la paura e l'aggravarsi delle ferite della madre, Aurelio si reca al Monastero di Camaldoli a chiedere aiuto ai monaci, l'11 Settembre. I sopravvissuti vengono portati a Camaldoli, mentre uno degli anziani si reca a Poppi ad avvertire il sindaco.
Passato il fronte, il 26 Settembre giungono gli Inglesi e contemporaneamente incominciano a tornare i primi paesani, che notano come le case degli eccidi siano state fatte saltare in aria nel frattempo, e che il corpo di Roselli Iole e sua figlia era stato gettato nel fosso. (www.moggiona.it)
Il rapporto della War Crimes Commission afferma che il luogotenente e il sergente responsabili del massacro sarebbero stati spesso ubriachi, che erano considerati maniaci sessuali, e si pensava perciò che avessero compiuto il massacro per puro piacere.
Il resoconto di questo episodio appare pubblicato per la prima volta in un libro scritto da un frate dell’Eremo di Camaldoli, che si trova sulle montagne a sud del Monte Falterona sul Passo dei Mandrioli.
11 Settembre 1944 — Giunge da Moggiona un bambino sui nove anni che ha attraversato la linea di fuoco e a stento, tra singhiozzi e lacrime, riesce a chiedere aiuto per la sua povera mamma, essa pure gravemente ferita al seno e ad una coscia che tuttora giace in una stanza in mezzo a 19 cadaveri massacrati 4 giorni innanzi.
Il coraggioso bambino Aurelio Ceccherini mi raccontò che circa le sei e mezzo del mattino del 7 corrente i tedeschi lasciarono definitivamente Moggiona trascinando seco un cannone tirato da 4 grossi cavalli in direzione dell'Eremo; seguirono altri grossi carri stracarichi di mobilio e masserizie rubate agli sfollati. Le tre famiglie (tra vecchi, donne e bambini, in tutti 22), forzate a rimanere per fare la cucina e il bucato agli stessi tedeschi, rimaste sole, decisero di venire pure loro a Camaldoli.
“Quando verso le nove e mezzo arrivano cinque o sei tedeschi con la pistola e fucile a mitraglia intimandoci di riunirci tutti in una stanza. Appena riuniti, due graduati tedeschi ci gridarono In terra! I due giovani, capito di che si trattava, si buttarono dalle finestre; ma uno dei due tedeschi corse giù e li uccise sul posto; l'altro, rimasto con noi, appena distesi per terra, col fucile a mitraglia sparò fino a tanto che non sentì più un solo lamento; la mamma e il fratellino di soli tre mesi ed io. Ci gettammo dietro la porta, zitti come morti e solo così potemmo, per grazia della Madonna, scampare a quel macello. Una palla trapassò il seno e un'altra una coscia della mamma, per cui non potette più muoversi.”
“Perché non venisti subito ad avvisarci ?”
“La mamma, temendo che quei cattivi, vedendomi, uccidessero pure me, non permise di allontanarmi un solo momento! Solo oggi, non potendo più resistere all'odore cattivo dei 19 morti, sentendoci sfiniti dalla fame, mi benedì e, affidatemi alla protezione della Madonna, permise che venissi a Camaldoli.” (Buffadini A. 1947 p. 70)
L'arrivo delle truppe britanniche
Una settimana prima, il 30 agosto, il reggimento Skinners Horse della 10 Indian Division era arrivato a Bibbiena e il 13 settembre le truppe alleate erano a Poppi. Con grande sbigottimento dei partigiani, un ‘ufficiale di un reggimento scozzese’ aveva richiesto - con quelli che Raffaello Sacconi, comandante del 3° distaccamento ‘Licio Nencetti’ della ‘Pio Borri’, avrebbe poi definito ‘metodi autoritari’ - che essi consegnassero le loro cinque pistole automatiche. Un ufficiale di un reggimento Ghurka,
dopo aver interrogato un partigiano, lo costrinse a consegnare la sua arma, e Sacconi riferisce che il partigiano aveva tentato di far capire all’ufficiale con l’aiuto di un interprete quale fosse stato esattamente il loro ruolo.
I partigiani ritenevano che fosse necessario conservare le proprie armi, sostenendo che le truppe alleate, pesantemente impegnate a combattere lungo il fronte, non avessero né il tempo né la voglia di occuparsi dei bisogni della popolazione locale. Il Comando della 10 Indian Division, temendo l’infiltrazione di possibili spie, aveva imposto pesante restrizioni sui movimenti dei civili, e Sacconi riferisce che la gente di S. Martino vicino Poppi aveva chiesto ai partigiani appartenenti alla ‘Licio Nencetti’ di intercedere per loro presso il Comando.
Il capo partigiano sosteneva che la vasta portata delle azioni degli Alleati lungo tutto il fronte all’interno di un preciso disegno strategico non potesse consentire loro di rischiare uomini e mezzi per liberare qualche villaggio del Casentino; questa tesi era confermata dal Diario di Guerra della 1 Guards Brigade, laddove essi scrivevano che non era mai stato preso in considerazione l’occupazione militare del Pratomagno stesso.
Infatti, gli Alleati si dirigevano verso la Linea Gotica, contenti di lasciare ai partigiani il compito di sgomberare gli ultimi tedeschi rimasti sul Pratomagno. La versione partigiana della fine del combattimento intorno alla montagna è la seguente
...incitati, chiamati dalla popolazione ancora sotto il giogo tedesco, avanzano, anche disobbedienti agli ordini degli Alleati, e liberano uno a uno i paesi del Casentino. (Sacconi 1975 p. 155)
dopo aver interrogato un partigiano, lo costrinse a consegnare la sua arma, e Sacconi riferisce che il partigiano aveva tentato di far capire all’ufficiale con l’aiuto di un interprete quale fosse stato esattamente il loro ruolo.
I partigiani ritenevano che fosse necessario conservare le proprie armi, sostenendo che le truppe alleate, pesantemente impegnate a combattere lungo il fronte, non avessero né il tempo né la voglia di occuparsi dei bisogni della popolazione locale. Il Comando della 10 Indian Division, temendo l’infiltrazione di possibili spie, aveva imposto pesante restrizioni sui movimenti dei civili, e Sacconi riferisce che la gente di S. Martino vicino Poppi aveva chiesto ai partigiani appartenenti alla ‘Licio Nencetti’ di intercedere per loro presso il Comando.
Il capo partigiano sosteneva che la vasta portata delle azioni degli Alleati lungo tutto il fronte all’interno di un preciso disegno strategico non potesse consentire loro di rischiare uomini e mezzi per liberare qualche villaggio del Casentino; questa tesi era confermata dal Diario di Guerra della 1 Guards Brigade, laddove essi scrivevano che non era mai stato preso in considerazione l’occupazione militare del Pratomagno stesso.
Infatti, gli Alleati si dirigevano verso la Linea Gotica, contenti di lasciare ai partigiani il compito di sgomberare gli ultimi tedeschi rimasti sul Pratomagno. La versione partigiana della fine del combattimento intorno alla montagna è la seguente
...incitati, chiamati dalla popolazione ancora sotto il giogo tedesco, avanzano, anche disobbedienti agli ordini degli Alleati, e liberano uno a uno i paesi del Casentino. (Sacconi 1975 p. 155)