Vallucciole e Partina
LAPIDE A PARTINA
Da Molin di Bucchio, dove trovò la morte per le mani dei repubblichini il partigiano Pio Borri nel novembre del 1944, si diparte un sentiero che porta su in cima al minuscolo paese di Castelcastagnaio. Da qui una strada di montagna tutta tornanti arriva al Passo della Consuma che collega Firenze all’Alto Casentino, un percorso che molto probabilmente veniva usato dai partigiani appartenenti alla Brigata fiorentina ‘Faliero Pucci’ (che in seguito si sarebbe chiamata ‘Vittorio Sinigallia’) la quale, in un altro attacco sferrato a Molin di Bucchio il 10 aprile 1944, uccise due ufficiali tedeschi appartenenti alla 15 Panzergrenadier-Division del 76 Panzerkorps e ne ferì un terzo, che nonostante tutto riuscì a fuggire.
Il giorno successivo a questo attacco, i tedeschi mandarono centocinquanta miliziani nella zona. Le truppe appartenevano prevalentemente alla Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ (76 Panzerkorps) che agiva in parallelo a vari gruppi di polizia militare. La loro prima azione fu di bloccare il passo dell’Appennino a Londa, tra la Toscana e l’Emilia Romagna, nel tentativo di accerchiare i partigiani. Questi ultimi riuscirono però a sfuggire e raggiungere il Pratomagno, cosa che portò i nazi-fascisti a sfogare la loro rabbia sulla popolazione delle vicine Vallucciole e Moscaio.
Il pomeriggio dello stesso giorno, un interprete tedesco si fermò a Stia, che si trova nel punto in cui la stretta Valle dell’Arno si allarga per divenire l’Alto Casentino, e chiese informazioni sulla strada per Molin di Bucchio. Un testimone oculare che lavorava insieme ad un gruppo di uomini ricordò che alcune donne erano accorse per avvertirli di non far ritorno a Molin di Bucchio fino a tarda sera, dato che una compagnia di tedeschi era andata là per raccogliere i propri morti e aveva dato fuoco al paese. Dopo aver distrutto questo abitato, quattro o cinque di quei soldati erano andati su al piccolo borgo di Serelli alla ricerca di armi, e con l’occasione avevano informato gli abitanti che, sebbene il giorno successivo loro sarebbero tornati alla ricerca dei partigiani, essi dovevano mantenere la calma giacché a loro non sarebbe accaduto nulla.
Come era prevedibile, i tedeschi non mantennero la parola; partendo dal borgo di Giuncheto, presero a seguire il sentiero di montagna, mettendo a ferro e fuoco le case, uccidendo donne e bambini, e costringendo gli uomini a portare pesanti casse di munizioni in cima al Monte Falterona. Se per caso uno cadeva sotto il peso del carico che trasportava, veniva direttamente fucilato. Mentre salivano sulla montagna verso Vallucciole, i tedeschi saccheggiarono ogni singola casa che incontrarono e poi le dettero fuoco; tutte le donne ed i bambini vennero sterminati, mentre gli uomini furono costretti ad unirsi agli altri che già trasportavano le munizioni. Dopo che le armi furono portate a destinazione, gli uomini furono costretti a riportare il frutto dei bottini a Giuncheto, e lì furono massacrati. Solo quattro di quegli uomini furono risparmiati, benché qualcun altro che era rimasto solo ferito riuscì a scappare. Uno di loro ricorda che
Da quel giorno sono trascorsi tanti anni, ma non ho avuto più pace. Ho sempre davanti agli occhi i miei familiari, in attesa di essere uccisi. Ho davanti ai miei occhi il bimbo più grande, già in età di capire, che stringendosi terrorizzato alla mamma mi guardava mentre seguivo i tedeschi, e sembrava chiedermi “Babbo, perché non ci porti con te e ci abbandoni a questi soldati?” (Sacconi 1975 p.72)
Sulla strada di ritorno dal Monte Falterona questo padre di famiglia dovette passare davanti alla propria casa dove vide sua moglie ed i suoi bambini che giacevano senza vita.
Le perdite ammontarono a cento otto vite umane in tutto, sessantaquattro uomini, quarantasei donne e sedici bambini. Erano state bruciate o danneggiate cinquanta case ed erano stati portati via tutti gli animali. Quella sera più tardi i tedeschi festeggiarono a Stia insieme ad alcuni italiani, dopo aver ucciso e cucinato arrosto gli animali che avevano rubato.
Nella notte tra il 12 e il 13 aprile un gruppo di soldati tedeschi uccise sette giovani nel paese di Moscaio; dopo averli costretti ad alzarsi dal letto, li massacrarono con una scarica di mitragliatrice. Il partigiano Raffaello Sacconi, capo del 3° distaccamento della 23ª Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’ ha scritto nessun motivo ha indotto i tedeschi a compiere il massacro. (Sacconi 1975 p. 70) e sosteneva che sia il massacro di Moscaio che quello di Vallucciole erano parte di una più ampia azione di repressione che interessa tutto il versante Toscano e Romagnolo. (Sacconi 1975 p. 70)
Il 13 aprile ebbero luogo altre due rappresaglie lungo un altro percorso che conduce dal Casentino al Passo dei Mandrioli. A Badia Prataglia, vicino al passo, furono uccise quattro persone a colpi di fuoco. Più giù a Partina, presso Bibbiena, ventotto persone persero la vita. All’epoca il 3° distaccamento della 23ª Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’ (meno il ‘Volante’ che si trovava in Valdichiana) era riunito nella zona pedemontana sopra Partina, in una fattoria detta Podere Prati, per organizzare la propria difesa. Tre partigiani scesero giù a Partina prima dell’alba per procurare cibo e munizioni, e arrivando al paese furono sorpresi di scoprire che alcuni soldati tedeschi erano arrivati prima di loro. Uno dei tre fu ucciso in azione, uno fu catturato e ucciso a colpi d’arma da fuoco, mentre il terzo riuscì a scappare, a raggiungere il suo gruppo e portare la testimonianza di ciò che era accaduto. Si chiamava Salvatore Vecchioni, e in seguito insistette che i tre partigiani erano tornati al paese per mettere in guardia la popolazione sul pericolo che stavano correndo.
Vecchioni era nella casa dei suoi genitori quando sentì dei passi che si avvicinavano.
I passi giunsero alla mia porta, fu bussato con violenza e poi la porta venne scardinata. Mi resi subito conto del pericolo; afferrai il mitra ed una bomba a mano, raggiunsi il pianerottolo e decisi a difendermi. Ma mia madre, gridando, “Un momento, mi vesto”, scese le scale, forse per trattenere un po' gli aggressori e darmi moda di scappare. Cosi, non potei sparare perché ella venne a trovarsi fra me e loro. Cercai di fuggire attraverso un'uscita di sicurezza, una finestra dalla quale avevo da tempo tolto la grata in ferro, per prepararmi un eventuale via da scampo. Dalla finestra avrei dovuto raggiungere un terrazzo, attraversare uno scantinato poi una botola ed entrare nell'appartamento dell'inquilino accanto; poi sarei salito in soffitto e fuggito attraverso i tetti. Ma sul terrazzo mi trovai faccia a faccia con un tedesco, al quale puntai il mitra, con l'intenzione di fargli alzare le mani e di servirmi di lui come ostaggio. Il tedesco, però non obbedì e io allora premetti il grilletto, ma l'arma si inceppò per una cartuccia difettosa. Il tedesco sparò forse con una pistola, ma la pallottola, dopo avermi ferito la mano sinistra, si arrestò nell'otturatore del mio Sten, bloccandolo. Cercai di riarmare l'arma, ma oramai era inservibile. Il tedesco, non essendosi reso conto che la mia arma era guasta, si riparò dietro il muro e lancio una bomba a mano. Intuendo la mossa, scavalcai il davanzale della finestra per ripararmi, ma il mio braccio destro rimase allo scoperto e fu colpito da un frammento di scheggia. (Sacconi 1975 p. 69)
Si ricordava che i tedeschi se ne erano andati dopo aver dato fuoco alla casa, pensando di averlo ferito mortalmente, e spingendo sua madre e suo fratello davanti a loro come scudi. Il suo collega Sante Paperini arrivò sulla scena e lanciò una granata a mano; benché non avesse colpito nessun tedesco, ciò diede la possibilità ai familiari di Vecchioni di scappare. Anche Vecchioni fuggì, ma Paperini fu ucciso e il terzo partigiano, Ciabatti, fu arrestato.
Nel frattempo, altrove nel paese alcuni repubblichini, fingendo di essere partigiani, andarono a casa di Angiolo Cerini, la guardia del paese. Gli chiesero di essere messi in contatto coi partigiani del luogo, perché bisognava mandare armi su nelle montagne. Cerini fu raggirato con l’inganno e fece i nomi di tre persone che avevano dei muli. Uno di loro era un tale di nome Settimo Giovannini, e costoro gli chiesero di portarli su nelle montagne, ma lui rispose che i muli erano stanchi dato che avevano lavorato tutto il giorno precedente. Aggiunse che aiutava sempre i partigiani quando poteva ma non poteva esser d’aiuto in quella occasione. I falsi partigiani lasciarono la stalla e ordinarono a Cerini di portarli dalla seconda persona che aveva nominato. Questo era un uomo di nome Giovanni Lorenzoni, che quando arrivarono li accolse in mutande. Quando chiese se poteva rientrare per vestirsi, gli risposero che non era necessario poiché sarebbe stato ucciso. A questo punto Cerini si rese conto che era stato ingannato, e per salvare gli altri cominciò a ritrattare quello che aveva affermato. Gli spararono in testa e lui fu la prima vittima del massacro.
A questo punto altri italiani vestiti in uniforme tedesca al comando di truppe tedesche si avventarono sugli sfortunati cittadini; abbandonando ogni dissimulazione si diedero al massacro in tutta fretta. Vecchioni racconta come la casa di Lorenzoni fu messa a ferro e fuoco, mentre lui fu costretto sempre in mutande a condurli alla casa di un uomo di nome Vito Zavagli, che riconoscendo in uno dei militari un italiano della zona, lo rimproverò, procurandosi così la morte. Con una lista di nomi e indirizzi, i nazi-fascisti andarono ad individuare le case e dettero loro fuoco. Due fabbri, che avevano ferrato i muli dei partigiani, furono coperti di benzina e bruciati vivi. Altri tre uomini furono gettati vivi nelle fiamme delle case che bruciavano, due di loro nella casa del Vecchioni, di fronte a cui altri tre furono uccisi. Uno di costoro si chiamava Egisto Montini, il proprietario di una fabbrica tessile che stava facendo indumenti per i partigiani. Fecero anche saltare la sua casa con la dinamite.
Gli assassini non salvarono neanche coloro che stavano lavorando per la Todt. Undici di questi uomini furono catturati mentre si recavano al lavoro e furono portati a casa del segretario fascista, dove furono condannati a morte e subito giustiziati. Fu preso anche lo zio di Vecchioni insieme ad un frate del monastero di Camaldoli accusato di aver aiutato i partigiani, ma il prete del luogo intervenne per salvare il frate, e il soldato tedesco risparmiò la vita allo zio del Vecchioni perché il caso volle che provenisse da una cittadina della Germania dove lo zio un tempo aveva lavorato.
La crudeltà dei nazi-fascisti non risparmiò neanche i feriti; si offrirono di portarne due all’ospedale. Uno si rifiutò di andare con loro ma l’altro, il padre del partigiano Sante Paperini, accettò. Fu caricato su un camion che poi si fermò vicino Musolea, tra Partina e Bibbiena. Scavarono una fossa e ce lo buttarono dentro ancora vivo. Quando il prete di Musolea tirò fuori il suo corpo ormai era morto.
I commenti finali di Vecchioni accennano alla responsabilità di questo massacro in cui persero la vita ventotto persone.
A questo punto debbo fare delle precisazioni per smentire, una volta per sempre, le falsità diffuse, dopo l'eccidio, dalle stesse persone che lo avevano provocato, allo scopo di scaricare sui partigiani la responsabilità dell'accaduto ed il comprensibile risentimento di chi aveva perso persone care, e averi. Queste inique persone mi credettero morto (il tedesco che mi aveva sparato dichiarò, nel suo rapporto, di avermi ucciso) e quindi non in condizione di smentirle; ed invece eccomi qua, con le mie testimonianze, a ristabilire la verità.
Primo la rappresaglia non fu provocata da noi partigiani, perché nella zona, non furono mai condotte azioni ostili ai tedeschi; quella mattina del 13 aprile, noi tre, io, il Paperini e il Ciabatti, giungemmo in paese quando la rappresaglia aveva già avuto inizio.
Secondo l'episodio intorno alla mia abitazione non provocò né il ferimento, né la morte di nessun militare tedesco, cosa che avrebbe potuto portare ad un inasprimento della rappresaglia.
Terzo è dimostrato da tante testimonianze che le SS furono spinte alla rappresaglia da false denunce, inoltrate direttamente al loro comando da persone della zona o dei dintorni, per accertare le responsabilità dell'accaduto e per rendere giustizia a quei poveri morti. (Sacconi 1975 p. 69)
Il partigiano Raffaello Sacconi insisteva che tutto il piano era premeditato. Secondo lui non costitutiva una rappresaglia per l’uccisione dei tedeschi a Molin di Bucchio; sosteneva che la Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ era stata dirottata dal fronte per eseguire i massacri. Ovviamente i tedeschi erano impegnati a eliminare tutti i partigiani che potevano, ed a questo scopo eliminavano tutti i sospettati tra la popolazione maschile. Quattro giorni dopo, il 17 aprile, diciassette partigiani furono uccisi a colpi da fuoco a Stia. La gente del posto, terrificata da quello che era successo a Vallucciole, si rinchiuse nelle proprie case. Il 18 a Pratovecchio
reparti SS tedesche occupano il paese e sparando all'impazzata, terrorizzano la popolazione, che fugge per la campagna. I fratelli Luigi, Nello e Gino Spighi, rispettivamente di anni 39, 34 e 27, vengono arrestati, caricati di pesante cassette di munizioni, e condotti nei pressi di Prato alle Conie ove, dopo averli seviziati, sono uccisi con scariche di mitra, e le salme vengono gettate in un fosso, senza essere nemmeno ricoperte con la terra. (Curina 1957 p. 478)
L’effetto psicologico di ciò che era accaduto ebbe conseguenze temporanee se non permanenti, in quanto influì sul morale dei partigiani stessi. Sacconi scrive che
il morale dei partigiani è depresso. Molti di loro hanno avuto parenti, amici e conoscenti trucidati dai tedeschi; alcuni partigiani sono feriti o ammalati, la popolazione dei paesi è terrorizzata per quello che ha subito e per paura che le stragi possano ripetersi...I partigiani che sono stati testimonidelle barbare gesta tedesche, civili sfuggiti per miracolo alla strage e che hanno trovato rifugio presso di noi, raccontano fatti strazianti bambini squartati, uomini bruciati… I pareri sono discordi una minoranza vorrebbe lanciarsi contro i tedeschi per vendicare i caduti, costi quello che costi, La maggioranza è contraria, in quel momento, ad ogni azione, per non dare il pretesto ai tedeschi di perpetrare altre stragi, e così restammo inoperosi per qualche giorno. Fanno eccezione la compagnia ‘Volante’ e il 5° distaccamento, che proprio in questi giorni inizia la lotta contro i tedeschi ed i fascisti. (Sacconi 1975 p. 77)
Il giorno successivo a questo attacco, i tedeschi mandarono centocinquanta miliziani nella zona. Le truppe appartenevano prevalentemente alla Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ (76 Panzerkorps) che agiva in parallelo a vari gruppi di polizia militare. La loro prima azione fu di bloccare il passo dell’Appennino a Londa, tra la Toscana e l’Emilia Romagna, nel tentativo di accerchiare i partigiani. Questi ultimi riuscirono però a sfuggire e raggiungere il Pratomagno, cosa che portò i nazi-fascisti a sfogare la loro rabbia sulla popolazione delle vicine Vallucciole e Moscaio.
Il pomeriggio dello stesso giorno, un interprete tedesco si fermò a Stia, che si trova nel punto in cui la stretta Valle dell’Arno si allarga per divenire l’Alto Casentino, e chiese informazioni sulla strada per Molin di Bucchio. Un testimone oculare che lavorava insieme ad un gruppo di uomini ricordò che alcune donne erano accorse per avvertirli di non far ritorno a Molin di Bucchio fino a tarda sera, dato che una compagnia di tedeschi era andata là per raccogliere i propri morti e aveva dato fuoco al paese. Dopo aver distrutto questo abitato, quattro o cinque di quei soldati erano andati su al piccolo borgo di Serelli alla ricerca di armi, e con l’occasione avevano informato gli abitanti che, sebbene il giorno successivo loro sarebbero tornati alla ricerca dei partigiani, essi dovevano mantenere la calma giacché a loro non sarebbe accaduto nulla.
Come era prevedibile, i tedeschi non mantennero la parola; partendo dal borgo di Giuncheto, presero a seguire il sentiero di montagna, mettendo a ferro e fuoco le case, uccidendo donne e bambini, e costringendo gli uomini a portare pesanti casse di munizioni in cima al Monte Falterona. Se per caso uno cadeva sotto il peso del carico che trasportava, veniva direttamente fucilato. Mentre salivano sulla montagna verso Vallucciole, i tedeschi saccheggiarono ogni singola casa che incontrarono e poi le dettero fuoco; tutte le donne ed i bambini vennero sterminati, mentre gli uomini furono costretti ad unirsi agli altri che già trasportavano le munizioni. Dopo che le armi furono portate a destinazione, gli uomini furono costretti a riportare il frutto dei bottini a Giuncheto, e lì furono massacrati. Solo quattro di quegli uomini furono risparmiati, benché qualcun altro che era rimasto solo ferito riuscì a scappare. Uno di loro ricorda che
Da quel giorno sono trascorsi tanti anni, ma non ho avuto più pace. Ho sempre davanti agli occhi i miei familiari, in attesa di essere uccisi. Ho davanti ai miei occhi il bimbo più grande, già in età di capire, che stringendosi terrorizzato alla mamma mi guardava mentre seguivo i tedeschi, e sembrava chiedermi “Babbo, perché non ci porti con te e ci abbandoni a questi soldati?” (Sacconi 1975 p.72)
Sulla strada di ritorno dal Monte Falterona questo padre di famiglia dovette passare davanti alla propria casa dove vide sua moglie ed i suoi bambini che giacevano senza vita.
Le perdite ammontarono a cento otto vite umane in tutto, sessantaquattro uomini, quarantasei donne e sedici bambini. Erano state bruciate o danneggiate cinquanta case ed erano stati portati via tutti gli animali. Quella sera più tardi i tedeschi festeggiarono a Stia insieme ad alcuni italiani, dopo aver ucciso e cucinato arrosto gli animali che avevano rubato.
Nella notte tra il 12 e il 13 aprile un gruppo di soldati tedeschi uccise sette giovani nel paese di Moscaio; dopo averli costretti ad alzarsi dal letto, li massacrarono con una scarica di mitragliatrice. Il partigiano Raffaello Sacconi, capo del 3° distaccamento della 23ª Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’ ha scritto nessun motivo ha indotto i tedeschi a compiere il massacro. (Sacconi 1975 p. 70) e sosteneva che sia il massacro di Moscaio che quello di Vallucciole erano parte di una più ampia azione di repressione che interessa tutto il versante Toscano e Romagnolo. (Sacconi 1975 p. 70)
Il 13 aprile ebbero luogo altre due rappresaglie lungo un altro percorso che conduce dal Casentino al Passo dei Mandrioli. A Badia Prataglia, vicino al passo, furono uccise quattro persone a colpi di fuoco. Più giù a Partina, presso Bibbiena, ventotto persone persero la vita. All’epoca il 3° distaccamento della 23ª Brigata Garibaldi ‘Pio Borri’ (meno il ‘Volante’ che si trovava in Valdichiana) era riunito nella zona pedemontana sopra Partina, in una fattoria detta Podere Prati, per organizzare la propria difesa. Tre partigiani scesero giù a Partina prima dell’alba per procurare cibo e munizioni, e arrivando al paese furono sorpresi di scoprire che alcuni soldati tedeschi erano arrivati prima di loro. Uno dei tre fu ucciso in azione, uno fu catturato e ucciso a colpi d’arma da fuoco, mentre il terzo riuscì a scappare, a raggiungere il suo gruppo e portare la testimonianza di ciò che era accaduto. Si chiamava Salvatore Vecchioni, e in seguito insistette che i tre partigiani erano tornati al paese per mettere in guardia la popolazione sul pericolo che stavano correndo.
Vecchioni era nella casa dei suoi genitori quando sentì dei passi che si avvicinavano.
I passi giunsero alla mia porta, fu bussato con violenza e poi la porta venne scardinata. Mi resi subito conto del pericolo; afferrai il mitra ed una bomba a mano, raggiunsi il pianerottolo e decisi a difendermi. Ma mia madre, gridando, “Un momento, mi vesto”, scese le scale, forse per trattenere un po' gli aggressori e darmi moda di scappare. Cosi, non potei sparare perché ella venne a trovarsi fra me e loro. Cercai di fuggire attraverso un'uscita di sicurezza, una finestra dalla quale avevo da tempo tolto la grata in ferro, per prepararmi un eventuale via da scampo. Dalla finestra avrei dovuto raggiungere un terrazzo, attraversare uno scantinato poi una botola ed entrare nell'appartamento dell'inquilino accanto; poi sarei salito in soffitto e fuggito attraverso i tetti. Ma sul terrazzo mi trovai faccia a faccia con un tedesco, al quale puntai il mitra, con l'intenzione di fargli alzare le mani e di servirmi di lui come ostaggio. Il tedesco, però non obbedì e io allora premetti il grilletto, ma l'arma si inceppò per una cartuccia difettosa. Il tedesco sparò forse con una pistola, ma la pallottola, dopo avermi ferito la mano sinistra, si arrestò nell'otturatore del mio Sten, bloccandolo. Cercai di riarmare l'arma, ma oramai era inservibile. Il tedesco, non essendosi reso conto che la mia arma era guasta, si riparò dietro il muro e lancio una bomba a mano. Intuendo la mossa, scavalcai il davanzale della finestra per ripararmi, ma il mio braccio destro rimase allo scoperto e fu colpito da un frammento di scheggia. (Sacconi 1975 p. 69)
Si ricordava che i tedeschi se ne erano andati dopo aver dato fuoco alla casa, pensando di averlo ferito mortalmente, e spingendo sua madre e suo fratello davanti a loro come scudi. Il suo collega Sante Paperini arrivò sulla scena e lanciò una granata a mano; benché non avesse colpito nessun tedesco, ciò diede la possibilità ai familiari di Vecchioni di scappare. Anche Vecchioni fuggì, ma Paperini fu ucciso e il terzo partigiano, Ciabatti, fu arrestato.
Nel frattempo, altrove nel paese alcuni repubblichini, fingendo di essere partigiani, andarono a casa di Angiolo Cerini, la guardia del paese. Gli chiesero di essere messi in contatto coi partigiani del luogo, perché bisognava mandare armi su nelle montagne. Cerini fu raggirato con l’inganno e fece i nomi di tre persone che avevano dei muli. Uno di loro era un tale di nome Settimo Giovannini, e costoro gli chiesero di portarli su nelle montagne, ma lui rispose che i muli erano stanchi dato che avevano lavorato tutto il giorno precedente. Aggiunse che aiutava sempre i partigiani quando poteva ma non poteva esser d’aiuto in quella occasione. I falsi partigiani lasciarono la stalla e ordinarono a Cerini di portarli dalla seconda persona che aveva nominato. Questo era un uomo di nome Giovanni Lorenzoni, che quando arrivarono li accolse in mutande. Quando chiese se poteva rientrare per vestirsi, gli risposero che non era necessario poiché sarebbe stato ucciso. A questo punto Cerini si rese conto che era stato ingannato, e per salvare gli altri cominciò a ritrattare quello che aveva affermato. Gli spararono in testa e lui fu la prima vittima del massacro.
A questo punto altri italiani vestiti in uniforme tedesca al comando di truppe tedesche si avventarono sugli sfortunati cittadini; abbandonando ogni dissimulazione si diedero al massacro in tutta fretta. Vecchioni racconta come la casa di Lorenzoni fu messa a ferro e fuoco, mentre lui fu costretto sempre in mutande a condurli alla casa di un uomo di nome Vito Zavagli, che riconoscendo in uno dei militari un italiano della zona, lo rimproverò, procurandosi così la morte. Con una lista di nomi e indirizzi, i nazi-fascisti andarono ad individuare le case e dettero loro fuoco. Due fabbri, che avevano ferrato i muli dei partigiani, furono coperti di benzina e bruciati vivi. Altri tre uomini furono gettati vivi nelle fiamme delle case che bruciavano, due di loro nella casa del Vecchioni, di fronte a cui altri tre furono uccisi. Uno di costoro si chiamava Egisto Montini, il proprietario di una fabbrica tessile che stava facendo indumenti per i partigiani. Fecero anche saltare la sua casa con la dinamite.
Gli assassini non salvarono neanche coloro che stavano lavorando per la Todt. Undici di questi uomini furono catturati mentre si recavano al lavoro e furono portati a casa del segretario fascista, dove furono condannati a morte e subito giustiziati. Fu preso anche lo zio di Vecchioni insieme ad un frate del monastero di Camaldoli accusato di aver aiutato i partigiani, ma il prete del luogo intervenne per salvare il frate, e il soldato tedesco risparmiò la vita allo zio del Vecchioni perché il caso volle che provenisse da una cittadina della Germania dove lo zio un tempo aveva lavorato.
La crudeltà dei nazi-fascisti non risparmiò neanche i feriti; si offrirono di portarne due all’ospedale. Uno si rifiutò di andare con loro ma l’altro, il padre del partigiano Sante Paperini, accettò. Fu caricato su un camion che poi si fermò vicino Musolea, tra Partina e Bibbiena. Scavarono una fossa e ce lo buttarono dentro ancora vivo. Quando il prete di Musolea tirò fuori il suo corpo ormai era morto.
I commenti finali di Vecchioni accennano alla responsabilità di questo massacro in cui persero la vita ventotto persone.
A questo punto debbo fare delle precisazioni per smentire, una volta per sempre, le falsità diffuse, dopo l'eccidio, dalle stesse persone che lo avevano provocato, allo scopo di scaricare sui partigiani la responsabilità dell'accaduto ed il comprensibile risentimento di chi aveva perso persone care, e averi. Queste inique persone mi credettero morto (il tedesco che mi aveva sparato dichiarò, nel suo rapporto, di avermi ucciso) e quindi non in condizione di smentirle; ed invece eccomi qua, con le mie testimonianze, a ristabilire la verità.
Primo la rappresaglia non fu provocata da noi partigiani, perché nella zona, non furono mai condotte azioni ostili ai tedeschi; quella mattina del 13 aprile, noi tre, io, il Paperini e il Ciabatti, giungemmo in paese quando la rappresaglia aveva già avuto inizio.
Secondo l'episodio intorno alla mia abitazione non provocò né il ferimento, né la morte di nessun militare tedesco, cosa che avrebbe potuto portare ad un inasprimento della rappresaglia.
Terzo è dimostrato da tante testimonianze che le SS furono spinte alla rappresaglia da false denunce, inoltrate direttamente al loro comando da persone della zona o dei dintorni, per accertare le responsabilità dell'accaduto e per rendere giustizia a quei poveri morti. (Sacconi 1975 p. 69)
Il partigiano Raffaello Sacconi insisteva che tutto il piano era premeditato. Secondo lui non costitutiva una rappresaglia per l’uccisione dei tedeschi a Molin di Bucchio; sosteneva che la Fallschirm-Panzer-Division ‘Hermann Göring’ era stata dirottata dal fronte per eseguire i massacri. Ovviamente i tedeschi erano impegnati a eliminare tutti i partigiani che potevano, ed a questo scopo eliminavano tutti i sospettati tra la popolazione maschile. Quattro giorni dopo, il 17 aprile, diciassette partigiani furono uccisi a colpi da fuoco a Stia. La gente del posto, terrificata da quello che era successo a Vallucciole, si rinchiuse nelle proprie case. Il 18 a Pratovecchio
reparti SS tedesche occupano il paese e sparando all'impazzata, terrorizzano la popolazione, che fugge per la campagna. I fratelli Luigi, Nello e Gino Spighi, rispettivamente di anni 39, 34 e 27, vengono arrestati, caricati di pesante cassette di munizioni, e condotti nei pressi di Prato alle Conie ove, dopo averli seviziati, sono uccisi con scariche di mitra, e le salme vengono gettate in un fosso, senza essere nemmeno ricoperte con la terra. (Curina 1957 p. 478)
L’effetto psicologico di ciò che era accaduto ebbe conseguenze temporanee se non permanenti, in quanto influì sul morale dei partigiani stessi. Sacconi scrive che
il morale dei partigiani è depresso. Molti di loro hanno avuto parenti, amici e conoscenti trucidati dai tedeschi; alcuni partigiani sono feriti o ammalati, la popolazione dei paesi è terrorizzata per quello che ha subito e per paura che le stragi possano ripetersi...I partigiani che sono stati testimonidelle barbare gesta tedesche, civili sfuggiti per miracolo alla strage e che hanno trovato rifugio presso di noi, raccontano fatti strazianti bambini squartati, uomini bruciati… I pareri sono discordi una minoranza vorrebbe lanciarsi contro i tedeschi per vendicare i caduti, costi quello che costi, La maggioranza è contraria, in quel momento, ad ogni azione, per non dare il pretesto ai tedeschi di perpetrare altre stragi, e così restammo inoperosi per qualche giorno. Fanno eccezione la compagnia ‘Volante’ e il 5° distaccamento, che proprio in questi giorni inizia la lotta contro i tedeschi ed i fascisti. (Sacconi 1975 p. 77)